La Corte di Cassazione, con la pronuncia del 7 febbraio 2022, n. 3820, ha stabilito che la contestazione disciplinare ha la funzione di indicare al lavoratore i fatti addebitati per consentirgli di esercitare il suo diritto di difesa e non ha, invece, per oggetto le prove ad essi relative, soprattutto quando si tratta di fatti che, svolgendosi fuori dall’azienda, sfuggono alla diretta cognizione del datore di lavoro. In tali casi è sufficiente che il datore indichi la fonte della sua conoscenza.
I fatti di causa
Una società aveva azionato un procedimento disciplinare nei confronti di due dipendenti addetti ad una stazione autostradale, rei di aver apposto della carta sulla barriera ottica della sbarra di cadenzamento al fine di paralizzare il sistema di rilevamento dei veicoli in transito e di lucrare, in prima persona, il ricavato dei pedaggi. Il procedimento disciplinare, che era incentrato sulla condotta dagli stessi assunta il 27 ottobre 2016 e in altre circostanze indicate in un allegato alla lettera di contestazione, si era concluso con il loro licenziamento per giusta causa.
I dipendenti licenziati avevano impugnato il provvedimento espulsivo dinanzi al Tribunale territorialmente competente che nel giudizio in fase sommaria aveva respinto il ricorso, accolto nella fase di opposizione con declaratoria di illegittimità del licenziamento e condanna della società a reintegrarli.
La Corte d’Appello di Napoli, adita dalla società soccombente, accoglieva il reclamo proposto e, in riforma della sentenza di primo grado, respingeva l’originaria domanda dei dipendenti di impugnativa di licenziamento.
La Corte territoriale riteneva legittimo il licenziamento in questione in ragione (i) del particolare grado di fiducia richiesto dalla specifica posizione dagli stessi ricoperta, non suscettibile di controllo continuo; (ii) del fatto che essi avevano rapporti con l’utenza nei cui confronti rappresentavano l’azienda; (iii) della responsabilità connessa al maneggio di denaro. Secondo la Corte territoriale risultava irrilevante rispetto a tali elementi “il dato della esiguità della somma sottratta e dell’episodio isolato in cui ciò si sarebbe verificato, in quanto la circostanza che i dipendenti avessero posto in essere specifici artifici e raggiri per appropriarsi di denaro in danno del datore di lavoro rivestiva un elevato disvalore giuridico e sociale, tale da ledere in modo irrimediabile il vincolo fiduciario e rendere proporzionata la sanzione espulsiva”.
Avverso la decisione della Corte d’Appello i due lavoratori ricorrevano in cassazione, a cui resisteva la società con controricorso.
La decisione della Corte di Cassazione
La Corte di Cassazione ha, innanzitutto, chiarito che in tema di esercizio del potere disciplinare, la contestazione dell’addebito ha la funzione di indicare il fatto contestato al fine di consentire la difesa del lavoratore, mentre non ha per oggetto le relative prove, soprattutto per i fatti che, svolgendosi fuori dall’azienda, sfuggono alla diretta cognizione del datore di lavoro; conseguentemente è sufficiente che il datore di lavoro indichi la fonte della sua conoscenza.
Inoltre, la Corte di Cassazione ha osservato che, in tema di licenziamento per giusta causa, quando vengono contestati al dipendente diversi episodi rilevanti sul piano disciplinare, non occorre che l’esistenza della “causa” idonea a non consentire la prosecuzione del rapporto sia ravvisabile esclusivamente nel complesso dei fatti ascritti. A parere della Corte di Cassazione, il giudice può – nell’ambito degli addebiti posti a fondamento del licenziamento dal datore di lavoro – individuare anche solo in alcuni o in uno di essi il comportamento che giustifica la sanzione espulsiva, se lo stesso presenta il carattere di grave inadempimento richiesto dall’art. 2119 cod. civ.
La Corte di Cassazione ha poi evidenziato che il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione dell’illecito commesso si sostanzia nella valutazione della gravità dell’inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto rapporto e a tutte le circostanze del caso. L’inadempimento “deve essere valutato in senso accentuativo rispetto alla regola generale della “non scarsa importanza” di cui all’art. 1455 c.c., sicché l’irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata soltanto in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali (L. n. 604 del 1966, art. 3) ovvero addirittura tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto”. E, nel caso di specie la lesione del vincolo fiduciario è connessa all’impiego, da parte dei dipendenti, di artifici e raggiri allo scopo di sottrarre danaro (indipendente dalla sua entità) alla società datrice di lavoro.
In considerazione di tutto quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso dei lavoratori, condannandoli alla rifusione delle spese di lite.