Il decreto legislativo 104/2022, attuativo della direttiva europea sulla trasparenza 2019/1152, pubblicato sulla «Gazzetta ufficiale » 176 del 29 luglio e in vigore dal 13 agosto, individua al Capo III le prescrizioni minime che devono avere le condizioni di lavoro. La prima disposizione si riferisce alla durata massima del periodo di prova (articolo 7) che rafforza alcuni principi giurisprudenziali già formatisi sul tema. In particolare, il periodo di prova non può avere una durata superiore a sei mesi a meno che il contratto collettivo applicato al rapporto non preveda una durata inferiore. In caso di contratto a tempo determinato, il periodo di prova deve essere proporzionato alla durata del contratto, e alle mansioni assegnate in ragione della natura dell’impiego. Inoltre, in caso di rinnovo del contratto per svolgere le stesse mansioni, non può essere apposto un nuovo patto di prova.
Infine, nelle ipotesi di eventi sospensivi (quali malattia, infortunio e congedi obbligatori) la durata del periodo di prova è sospesa ed è prolungata in misura corrispondente all’assenza del lavoratore.
Una importante novità è definita dal decreto con riferimento al cumulo di impieghi (articolo 8) e cioè alla meglio nota «clausola di esclusiva» con la quale il datore di lavoro vieta al dipendente di svolgere una diversa attività professionale. Il decreto, infatti, per la prima volta prescrive il divieto per il datore di lavoro (e per il committente) di impedire al lavoratore di svolgere un’altra attività al di fuori dell’orario di lavoro concordato né di riservagli, per tale ragione, un trattamento sfavorevole. Fanno eccezione le ipotesi in cui l’eventuale seconda occupazione rechi pregiudizio alla salute e alla sicurezza del lavoratore (compreso il rispetto della normativa sui riposi), o non garantisca l’integrità del servizio pubblico, o ancora sia in conflitto d’interessi con l’attività principale (pur non violando il dovere di fedeltà).
Un’altra novità riguarda la prevedibilità minima del lavoro (articolo 9). È previsto che il datore di lavoro non possa imporre al lavoratore di svolgere l’attività lavorativa se l’orario di lavoro e la sua collocazione temporale non sono predeterminati; per l’effetto, è riconosciuto il diritto per il lavoratore di rifiutarsi di svolgere la prestazione, senza subire alcun pregiudizio, anche di natura disciplinare.
Continua a leggere la versione integrale pubblicata su Il Quotidiano del Lavoro de Il Sole 24 Ore.