Con l’ordinanza del 4 gennaio 2024, il Tribunale di Ravenna ha rimesso alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea il giudizio relativo alla legislazione italiana in merito alla computabilità nel periodo di comporto delle assenze dal lavoro causate da patologie invalidanti
Il quesito posto alla Corte di Giustizia Europea può essere così sintetizzato: se il periodo di comporto di 180 giorni previsto dal CCNL Confcommercio (che trova applicazione senza distinzioni tra soggetti disabili e non) possa considerarsi un ragionevole accomodamento idoneo da escludere la discriminazione indiretta dei lavoratori disabili.
L’ordinanza prende le mosse dalla Direttiva CE n. 78/2000, relativa alla parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro dei lavoratori disabili, recepita in Italia con il D.Lgs. n. 216/2013.
Sulla base di tale Direttiva si è formata, in ambito comunitario e, successivamente, in ambito nazionale, un filone giurisprudenziale che ha ritenuto che l’applicazione indifferenziata del medesimo periodo di comporto ai lavoratori disabili e ai lavoratori non disabili costituisca una discriminazione indiretta, in quanto provoca una disparità di trattamento a danno del disabile che, a causa della fragilità insita nell’handicap, è posto in una situazione di particolare svantaggio rispetto agli altri lavoratori, visto il rischio di maggiore possibilità di accumulo di giorni di assenza e di raggiungere, così, più facilmente i limiti del periodo di comporto.
Il comporto: brevi cenni sull’istituto
In applicazione dell’art. 32 Cost., che eleva a diritto costituzionalmente garantito il diritto alla salute, e dell’art. 38 Cost., co. 2, l’art. 2110 c.c. dispone che il lavoratore che si assenta per malattia ha diritto non solo alla conservazione del proprio posto di lavoro, ma altresì alla corresponsione, quando previsto dalla legge o dalla contrattazione collettiva, della retribuzione o di un’indennità nella misura e per il tempo determinati dalle leggi speciali, dagli usi o secondo equità (c.d. periodo di comporto).
Solo una volta decorso tale periodo, il datore di lavoro potrà legittimamente recedere dal contratto di lavoro per superamento del comporto a norma dell’art. 2118 c.c., ossia riconoscendo al lavoratore il preavviso o la relativa indennità sostitutiva.
In tal modo, l’art. 2110 c.c. realizza un contemperamento tra contrapposti diritti di rango costituzionale, entrambi ritenuti meritevoli di tutela: il diritto del lavoratore alla salute e alla conservazione del posto e quello del datore di lavoro alla libertà di iniziativa economica privata.
Utilizzando le parole delle Sezioni Unite della Cassazione, il periodo di comporto rappresenta “un punto di equilibrio fra l’interesse del lavoratore a disporre di un congruo periodo di assenze per ristabilirsi a seguito di malattia o infortunio e quello del datore di lavoro di non doversi fare carico a tempo indefinito del contraccolpo che tali assenze cagionano all’organizzazione aziendale” (Cass. SS.UU. 12568/2018).
Le nozioni comunitarie di disabilità e di discriminazione indiretta
La Corte di Giustizia Europea ha interpretato la direttiva 2000/78/CE, avente ad oggetto la «parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro», introducendo la nozione di disabilità c.d. europea.
Come emerge dalla giurisprudenza comunitaria formatasi sul tema, la disabilità è definita come «condizione patologica causata da una malattia diagnosticata come curabile o incurabile, qualora tale malattia comporti una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, possa ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori, e tale limitazione sia di lunga durata» (in tal senso, C. giust., 11 aprile 2013, HK Danmark, C-335/2011 e C-337/2011, punto 47, nonché C. giust. 18 gennaio 2018, Ruiz Conejero, C-270/16. Sulla stessa falsariga, in un’accezione allargata di disabilità, si veda anche Corte giust. 18 dicembre 2014, FOA (Fagog Arbejde), C-354/2013, punto 53, secondo cui anche l’obesità rientra nella nozione di handicap, ai sensi della Direttiva 2000/78, allorché sia di ostacolo alla partecipazione del lavoratore alla vita professionale).
Sul tema occorre, altresì, precisare che il concetto di disabilità comunitario è del tutto autonomo e, dunque, “scollegato” dal riconoscimento, nel diritto interno da parte degli organi competenti, dell’invalidità ai sensi della l. 68/99 o dei benefici della l. n. 104/92 (Cass n. 23338/2018, Cass. n. 6798 del 2018. Al riguardo, recentemente, si sono altresì espressi negli stessi termini: Trib. Ravenna, 27 luglio 2023, Corte Appello Roma 27 novembre 2023, Trib. Rovereto, 30 novembre 2023 e Trib. Roma 18 dicembre 2023).
Fatta questa premessa sulla nozione di disabilità e considerando il tema del periodo di comporto, occorre poi prendere in considerazione il disposto dell’art. 2, lett. b), Direttiva 2000/78/CE in tema di discriminazione indiretta fondata sulla disabilità.
Secondo la normativa comunitaria, tale forma di discriminazione sussiste allorché una disposizione apparentemente neutra possa mettere in una posizione di particolare svantaggio la persona disabile, a meno che:
- tale disposizione sia oggettivamente giustificata da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari; o che
- il datore di lavoro sia obbligato dalla legislazione nazionale ad adottare soluzioni ragionevoli, per ovviare agli svantaggi provocati dalla disposizione.
Sul punto, la Corte di Giustizia, con la recente sentenza del 18 gennaio 2024, nella causa C- 631/22 (in wikilabor.it), richiamando altre proprie decisioni (cfr. sentenza del 21.10.2021, Komisia za zashtita ot diskriminatsia, C-824/19, EU-C-2021-862, punto 59 e giurisprudenza ivi citata), ha ribadito che la Direttiva 2000/78/CE deve essere interpretata in conformità con le disposizioni della Convenzione ONU, al cui art. 2 viene statuito che per “discriminazione fondata sulla disabilità” si intende “qualsivoglia distinzione, esclusione o restrizione sulla base della disabilità che abbia lo scopo o l’effetto di pregiudicare o annullare il riconoscimento, il godimento o l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico, economico, sociale, culturale, civile o in qualsiasi altro campo”.
Sulla scorta di tali nozioni di disabilità e di discriminazione indiretta, la giurisprudenza, sia europea sia nazionale, ha avuto modo di esprimersi sul tema del comporto e del licenziamento conseguente al suo superamento in caso di persone con disabilità nella sua definizione comunitaria.
Nello specifico, la Corte di Giustizia Europea ha affermato che si pone in contrasto con il divieto di discriminazione basata sull’handicap una normativa nazionale che, senza effettuare alcuna distinzione tra lavoratore non disabile e disabile, consente al datore di lavoro di licenziare un lavoratore disabile in ragione di assenze dal lavoro imputabili alla sua condizione patologica.
Ad avviso della Corte di Giustizia una siffatta norma “è idonea a svantaggiare i lavoratori disabili e, quindi, a comportare una disparità di trattamento indirettamente basata sulla disabilità ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera b), della direttiva 2000/78”.
Dello stesso avviso, avuto conto del tenore dell’art. 3, comma 3-bis, D. Lgs. n. 216/2003, è la Cassazione che, di recente, ha statuito che “in tema di licenziamento, costituisce discriminazione indiretta l’applicazione dell’ordinario periodo di comporto al lavoratore disabile, perché la mancata considerazione dei rischi di maggiore morbilità dei lavoratori disabili, proprio in conseguenza della disabilità, trasmuta il criterio, apparentemente neutro, del computo del periodo di comporto breve in una prassi discriminatoria nei confronti del particolare gruppo sociale protetto in quanto in posizione di particolare svantaggio”.
Da ciò ne consegue che l’applicazione dell’ordinario periodo di comporto al portatore di handicap
- comunque disabile, potrebbe integrare gli estremi di una discriminazione indiretta e, per l’effetto, il licenziamento intimato per superamento del periodo di comporto sia da ritenersi nullo, con diritto del lavoratore alla reintegrazione in servizio.
Gli accomodamenti ragionevoli
Al fine di ridurre il rischio di compiere comportamenti discriminatori, il datore di lavoro, ai sensi dell’art. 3, comma 3-bis, D. Lgs. n. 216/2003, pur nella libertà di iniziativa economica e privata e quindi nel rispetto di quei principi che gli consentono la libera organizzazione dell’azienda, deve – in base alla diligenza e buona fede – individuare “accomodamenti ragionevoli” che consentano la neutralizzazione o il ridimensionamento di situazioni che possano aggravare le condizioni fisiche del dipendente.
Ad avviso della Cassazione la necessità di individuare detti accomodamenti “(…) non significa che un limite massimo in termini di giorni di assenza per malattia del lavoratore disabile non possa o non debba essere fissato (…). Tuttavia, tale legittima finalità deve essere attuata con mezzi appropriati e necessari, e quindi proporzionati (…)”.
Diversi al riguardo sono stati gli spunti forniti dalla giurisprudenza di merito circa gli eventuali accomodamenti ragionevoli che il datore di lavoro può attuare in funzione delle esigenze concrete delle persone con disabilità.
Tra questi, ad avviso di detta giurisprudenza, vi rientrano:
- la sottrazione dal calcolo del comporto dei giorni di malattia ascrivibili all’handicap, con conseguente ampliamento del periodo di comporto;
- il controllo, in maniera costante, dell’idoneità alla mansione del lavoratore;
- la riduzione dell’orario di lavoro;
- la sospensione del dipendente senza retribuzione, ai sensi dell’art. 10, Legge n. 68/99, per tutto il tempo in cui persista la patologia incompatibile con il lavoro;
- la ridistribuzione dei compiti tra lavoratori in maniera da assegnare al prestatore mansioni compatibili con le proprie patologie;
- la creazione di un nuovo posto di lavoro ferma restando la necessità che tale adibizione non mortifichi la dignità del lavoratore con mansioni notevolmente inferiori rispetto sia al proprio livello sia alla precedente professionalità, laddove esistano in azienda posizioni compatibili che
prevedano solo una diversa modulazione di orario o turni di lavoro;
- l’informazione al lavoratore dei giorni di malattia già usufruiti e il limite massimo del periodo di comporto previsto dalla contrattazione collettiva;
- l’informazione, in qualunque modo, al dipendente dell’approssimarsi della scadenza del periodo di comporto;
- il diritto al lavoro agile.
In definitiva, dunque, il rischio di non tenere conto dell’eccessiva morbilità del portato di handicap
- disabile resta a carico del datore di lavoro che può contrastare il fenomeno solo con strumenti adeguati, diversi da quelli approntati per gli altri dipendenti.
L’ordinanza del Tribunale di Ravenna
Il giudice rimettente, dopo aver richiamato la giurisprudenza della CGUE da cui ha poi preso le mosse anche la giurisprudenza di merito e di legittimità nazionale, ha sollevato dubbi sulla necessità di stabilire una durata specifica del periodo di comporto per i disabili, ritenendo che la normativa italiana sulla malattia fornisca già una tutela significativa al disabile. Ha anche esposto perplessità riguardo alla fattibilità di strumenti come lo scomputo, ad opera del datore di lavoro, dei periodi di assenza dovuti a disabilità dal periodo di comporto.
Continua a leggere la versione integrale su Modulo Contenzioso 24 de Il Sole 24 Ore.