La Corte di Cassazione, con sentenza n. 13876 del 7 luglio 2016, ha affermato che incorre nel vizio di ultrapetizione il giudice che – a fronte di una domanda attorea con cui viene chiesto, quale conseguenza della illegittimità del licenziamento, la condanna del datore di lavoro al pagamento di 6 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto e, comunque, di una somma non inferiore a 2,5 mensilità – ordina la reintegrazione del lavoratore, ponendo a carico del datore tutte le retribuzioni non versate sino al giorno dell’effettivo ripristino del rapporto di lavoro. Ciò quand’anche si sia in presenza di un licenziamento privo della forma scritta. Secondo la Corte, infatti, se l’attore nel quantificare la propria pretesa risarcitoria ha posto un preciso limite all’ammontare del quantum richiesto, il datore di lavoro non può essere condannato al pagamento di una somma eccedente. Oltretutto la Corte ritiene che tale limite non può dirsi superabile nemmeno con il riferimento “a quella somma che il giudice stabilirà” eventualmente presente nelle conclusioni del ricorso, non solo per il contenuto meramente formale dell’inciso, che non manifesta una incertezza sull’ammontare del danno effettivamente da liquidarsi, ma soprattutto perché il rimettersi al giudice assume il significato di affidarsi alla sua discrezionalità nello stabilire l’importo dovuto tra il minimo ed il massimo di cui all’art. 8 della Legge n. 604/1966.