La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 24030 del 24 novembre 2016, è intervenuta in tema di licenziamento per giusta causa, cassando con rinvio la sentenza della Corte d’appello territorialmente competente. Nella specie la Corte d’appello, confermando la decisione di primo grado, aveva dichiarato illegittimo il licenziamento per giusta causa intimato ad un responsabile di produzione per aver aggredito verbalmente nel corso di una assemblea sindacale una collega e per aver tenuto un comportamento estorsivo a danno del fratello della stessa. Ciò in quanto il primo addebito non rientrava tra quelli tipizzati dal CCNL di settore, mancando la “grave turbativa alla vita aziendale”, e del secondo non era stata fornita idonea prova. Peraltro, sempre i giudici di merito consideravano “violazioni di scarso rilievo” i precedenti disciplinari richiamati nella lettera di contestazione (due ammonizioni scritte ed un giorno di sospensione). La Corte di Cassazione, nell’accogliere il ricorso della società datrice di lavoro, ha, invece, ricordato che la valutazione circa la gravità del fatto addebitato al lavoratore deve essere operata tenendo conto del (i) la natura e l’utilità del singolo rapporto, (ii) la posizione delle parti, (iii) grado di affidamento richiesto da specifiche mansioni del dipendente, (iv) nocumento eventualmente arrecato e (v) la portata soggettiva dei fatti stessi. Sempre a parere della Corte occorre tener conto anche del “disvalore ambientale” che la condotta del lavoratore assume quando, in virtù della posizione professionale rivestita, può assurgere per gli altri dipendenti a modello diseducativo. La Corte di Cassazione è tornata così a delineare i criteri sulla scorta dei quali un comportamento può essere idoneo a legittimare un licenziamento per giusta causa.