Alberto De Luca sarà relatore al convegno “Riorganizzazione e licenziamenti dopo la sentenza della Corte Costituzionale n. 194/2018” organizzato da Convenia il prossimo 5 giugno a Milano e 12 giugno a Roma.
LOCATION E ORARI
Milano – mercoledì 5 giugno 2019
Roma – mercoledì 12 giugno 2019
(ore 9.00 – 13.00 / 14.30 – 16.00)
FOCUS
Come cambia la disciplina del licenziamento illegittimo?
In particolare, l’intervento di Alberto De Luca “L’impatto della sentenza della Corte Costituzionale sul processo del lavoro” verterà nello specifico sulle seguenti tematiche:
– elementi da provare a cura del datore di lavoro e del lavoratore
– distribuzione dell’onere della prova tra datore di lavoro e lavoratore
– prime applicazioni pratiche
– possibili linee guida per quantificare il rischio di causa
– un caso pratico: ricorso e memoria difensiva
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 9006 del 1° aprile 2019, ha affermato che il verbale di conciliazione sottoscritto in sede sindacale è impugnabile da parte del lavoratore soltanto se si è in presenza di un vizio del consenso o in difetto di assistenza da parte del rappresentante sindacale. E’, invece, preclusa al giudice qualsiasi valutazione in ordine alle determinazioni delle parti rispetto alle reciproche concessioni.
I fatti
La vicenda di cui si questiona sorge a seguito del ricorso depositato da un agente di commercio al fine di ottenere:
Nello specifico l’agente aveva denunciato, da un lato, l’assenza della partecipazione del rappresentante sindacale in sede di definizione e sottoscrizione dell’accordo e, dall’altro, la violenza morale esercitata dalla società per indurlo a firmarlo.
Il Tribunale adito aveva respinto il ricorso presentato dall’agente, ritenendo l’accordo transattivo esente da vizi. Avverso questa decisione l’agente era, quindi, ricorso in appello, il quale veniva nuovamente respinto.
Infatti, la Corte d’appello territorialmente competente aveva evidenziato, tra le altre, che:
L’agente soccombente ricorreva, quindi, in Cassazione.
La decisione della Corte di Cassazione
La Corte Cassazione, richiamando un suo precedente, ha innanzitutto affermato che le rinunce e le transazioni aventi ad oggetto diritti previsti da disposizioni inderogabili di legge o di contratti collettivi, contenute in verbali di conciliazione conclusi in sede sindacale, non sono impugnabili dal lavoratore. Ciò purché l’assistenza resa dai rappresentanti sindacali (della quale non ha valore equipollente quella fornita da un legale), sia stata effettiva, così da porlo in condizione di sapere a quale diritto rinuncia e in quale misura.
Ancora, sempre secondo la Corte di Cassazione, dall’accordo transattivo deve risultare la comune volontà delle parti di definire bonariamente una controversia in atto o prevista (res dubia), senza che acquisti rilievo l’eventuale squilibrio tra il “datum” ed il “retentum”. Ciò in quanto, ai sensi dell’art. 1970 cod. civ., “la transazione non può essere rescissa per causa di lesione, avendo la considerazione dei reciproci sacrifici e vantaggi derivanti dal contratto carattere soggettivo e, pertanto, rimessa all’autonomia delle parti”.
Peraltro, la Corte di Cassazione ha osservato che, in tema di transazione, la dilazione di pagamento, accordata dal creditore su richiesta del debitore, costituisce una parziale rinuncia, integrando così una “concessione” ai sensi dell’art. 1195 cod. civ. Questo perché, secondo le disposizioni codicistiche, l’adempimento di una obbligazione pecuniaria, anche se relativa al rapporto di lavoro, deve essere effettuato in un’unica soluzione, potendo il creditore rifiutare un adempimento parziale ai sensi dell’art. 1181 cod. civ.
Ed è proprio in considerazione di questi principi che, a parere della Corte di Cassazione, i giudici di merito hanno correttamente rigettato il ricorso dell’agente. L’accordo transattivo aveva, infatti, individuato le reciproche concessioni operate dalle parti, ossia:
Il tutto sul presupposto dell’esistenza di discordanti posizioni circa i rispettivi diritti e obblighi.
Non ravvisando, quindi, la presenza di vizi determinanti la nullità e/o l’annullabilità dell’accordo transattivo, la Suprema Corte ha respinto il ricorso presentato dal lavoratore, confermando la legittimità della transazione dal medesimo sottoscritta.
Notizie correlate:
https://www.delucapartners.it/le-nostre-sentenze/2017/verbale-di-conciliazione-annullamento/
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 7642/2019, torna ad affrontare il tema dei criteri di scelta di cui all’art. 5 della Legge 223/1991 nell’ambito dei licenziamenti collettivi.
I fatti
Il Giudice di primo grado aveva, con sentenza, rigettato l’opposizione proposta da una società ai sensi dell’art. 1, comma 51, della Legge 92/2012 avverso le ordinanze emesse all’esito della fase sommaria di annullamento dei licenziamenti intimati a due lavoratori nell’ambito di una procedura di riduzione del personale ex Legge 223/1991.
La società soccombente aveva proposto reclamo avverso la sentenza di primo grado dinnanzi alla Corte d’Appello che, nell’accoglierlo, aveva rigettato tutte le domande dei lavoratori.
Secondo la Corte distrettuale, contrariamente a quanto dedotto dai ricorrenti, la società non aveva attribuito un peso disomogeneo ai tre criteri di scelta di cui all’art. 5 della Legge 223/1991, osservando come la “concorsualità degli stessi non fosse sinonimo di eguaglianza ma di contemporanea presenza valutativa”.
Nello specifico, la società aveva individuato all’interno del criterio delle esigenze tecniche, produttive ed organizzative quattro sotto criteri, ossia (i) presenza; (ii) posizioni dichiarate in esubero; (iii) polivalenza; (iv) provenienza attività dismesse. Ciò in quanto, le esigenze di riduzione del personale erano collegate a programmi di riconversione industriale, con soppressione di alcune attività all’interno delle aree di produzione.
E sul punto la Corte d’Appello:
Inoltre, a parere della Corte d’Appello, non era da sottovalutare che (i) le OOSS coinvolte, durante l’intera procedura, non avevano sollevato alcuna obiezione in merito ai criteri di selezione e (ii) i ricorrenti non “avevano offerto la simulazione di una prova di resistenza”.
I due lavoratori ricorrevano così in Cassazione avverso la decisione della Corte d’appello, dove i relativi venivano respinti.
La decisione della Corte di Cassazione
La Corte di Cassazione ha, innanzitutto, evidenziato come l’annullamento del licenziamento collettivo per violazione dei criteri di scelta ex art. 5 della Legge 223/1991 non può essere richiesto indistintamente da ciascun dei lavoratori licenziati. Questa violazione può essere eccepita solo da coloro che, tra essi, abbiano in concreto subito un pregiudizio per effetto della violazione, perché avente rilievo determinante rispetto al licenziamento (cfr Cass. 24558/2016).
Ciò detto, la Corte di Cassazione ha osservato che il datore di lavoro non può limitare la scelta dei lavoratori da licenziare “ai soli dipendenti addetti al reparto o settore soppresso o ridotto se essi sono idonei – per il pregresso svolgimento della propria attività in altri reparti – ad occupare posizioni di colleghi addetti ad altri reparti”. In altri termini, non può essere ritenuta legittima la scelta dei lavoratori solo perché impiegati nel reparto interessato, trascurando il possesso di professionalità equivalente a quella di addetti ad altre realtà organizzative.
E passando al caso di specie, ad avviso della Corte di Cassazione, i giudici di merito avevano escluso che fosse stato attribuito un valoro disomogeneo ai tre criteri di scelta di cui all’art. 5 della Legge 223/1991, essendo stati tutti e tre valorizzati.
In particolare, secondo la Corte di Cassazione, proprio l’articolazione del criterio delle esigenze tecniche, produttive ed organizzative in quattro sotto criteri, con attribuzione di “diversificati punteggi”, rispondesse alla funzione di comparazione tra tutti i lavoratori aventi mansioni equivalenti nei vari settori di attività produttiva.
Notizie correlate:
La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 9268 del 3 aprile 2019, ha affermato che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimato ad una lavoratrice in stato di gravidanza durante il periodo di preavviso è legittimo ma inefficace, al pari di quanto avviene per il recesso intimato in costanza di malattia o infortunio.
I fatti
La Corte d’Appello territorialmente competente, in riforma della sentenza di primo grado, aveva respinto la domanda di una lavoratrice di nullità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimatole, ai sensi dell’art. 54 del D.lgs. 151/2001. Nello specifico la Corte d’Appello aveva ritenuto che il licenziamento si fosse perfezionato alla data di ricevimento della relativa comunicazione, sebbene i suoi effetti fossero stati posticipati al termine del periodo di preavviso.
I giudici di merito avevano, infatti, individuato il momento di inizio dello stato oggettivo della gravidanza in base alla documentazione medica offerta in comunicazione ed alla CTU svolta in primo grado, accertando appunto che lo stesso risalisse ad una data successiva all’intimazione del licenziamento.
Avverso tale decisione la lavoratrice aveva proposto ricorso in Cassazione, eccependo, tra le altre, che la sopravvenienza nelle more del preavviso dello stato di gravidanza aveva reso operante la tutela di cui al D.lgs. 151/2001. Ciò in quanto il rapporto di lavoro durante il preavviso prosegue a tutti gli effetti con i connessi obblighi e diritti, salvo il consenso del lavoratore all’immediata o anticipata sua risoluzione.
La Corte di Cassazione adita ha confermato la decisione emessa dai giudici di secondo grado, respingendo il ricorso formulato dalla lavoratrice.
La decisione della Corte di Cassazione
La Corte di Cassazione ha evidenziato, riprendendo un suo consolidato orientamento, che il licenziamento, essendo un atto unilaterale recettizio, si perfeziona nel momento in cui la manifestazione di volontà del datore di lavoro giunge a conoscenza del lavoratore. E ciò indipendentemente dal fatto che l’efficacia – intesa come la produzione dell’effetto tipico, consistente nella risoluzione del rapporto di lavoro – venga differita ad un momento successivo.
In altri termini la verifica delle condizioni legittimanti l’esercizio del potere di recesso deve essere “compiuta con riferimento al momento in cui detto negozio unilaterale si è perfezionato e non già con riguardo, ove il licenziamento sia stato intimato con preavviso, al successivo momento della scadenza del preavviso stesso”.
Ed è proprio a questo principio che, secondo la Corte di Cassazione, si sono attenuti i giudici di merito allorquando hanno escluso la nullità del licenziamento ai sensi dell’art. 54 del D.lgs. 151/2001. Ciò sull’assunto che lo stesso sia stato intimato e si sia perfezionato nel momento in cui la lavoratrice non era in stato di gravidanza.
Sempre a parere della Corte di Cassazione, la Corte d’Appello ha fatto anche correttamente leva sulla formulazione dell’art. 54, comma 5, del D.lgs. 151/2001 che considera nullo il licenziamento intimato “dall’inizio del periodo di gravidanza fino al termine del periodo di interdizione dal lavoro nonché fino al compimento di un anno di età del bambino” e non al momento di produzione dei suoi effetti.
Orbene, lo stato di gravidanza insorto durante il periodo di preavviso non inficia la legittimità del licenziamento intimato alla lavoratrice antecedentemente. Tuttavia, la Suprema Corte ha ricordato che lo stato di gravidanza costituisce un evento idoneo, ai sensi dell’art. 2110 cod. civ., a determinare la sospensione del periodo di preavviso.
Ma nel caso in esame la lavoratrice ha dedotto soltanto la nullità del licenziamento e non anche l’inefficacia legata alla sospensione del preavviso, determinandone così il rigetto.
La legge 3/2019, recante “Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici” (cd Decreto anticorruzione) ha ampliato l’elenco dei reati presupposti di cui all’art. 25 del D.lgs. 231/2001 inserendovi il reato di traffico di influenze illecite ex art. 346 -bis cod. pen. Quest’ultima disposizione punisce chiunque – sfruttando relazioni esistenti con un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio – indebitamente fa dare o promettere a sé o a terzo denaro od altre utilità. Ciò o come prezzo della propria mediazione illecita ovvero per remunerare il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio in relazione al compimento di un atto contrario all’esercizio delle sue funzioni e dei suoi poteri. Reato integrabile, tra le altre ipotesi, qualora i soggetti destinatari siano membri della Commissione delle Comunità Europea, del Parlamento, della Corte di Giustizia, della Corte dei Conti e della Comunità Europea. In caso di integrazione del reato in questione, all’ente si applica la sanzione pecuniaria da un minimo di Euro 51.646 ad un massimo di Euro 309.874.