Con recente sentenza n. 285 del 1° febbraio 2019, il Tribunale di Milano si è pronunciato in merito alla legittimità del comportamento del datore di lavoro che richieda ad un candidato di esibire il certificato dei carichi penali pendenti e se questi sia tenuto ad onorare la richiesta.
La vicenda trae origine dal procedimento disciplinare avviato nei confronti di un lavoratore per aver taciuto, in fase di colloquio, il fatto di essere stato condannato in sede penale, due anni prima, ad una pena di 4 anni e 4 mesi di reclusione, per reati informatici.
La sentenza riporta per intero la lettera di contestazione disciplinare consegnata al lavoratore, ove venivano dettagliatamente descritti i fatti imputati, quali, in particolare, il fatto di avere utilizzato i dati abusivamente sottratti ad una donna, peraltro impiegata presso lo stesso datore resistente, per poi utilizzarli per attuare una condotta qualificata come stalking ai danni della collega.
In particolare, veniva contestato al lavoratore, da un lato, di aver posto in essere una condotta (quella dello stalking) lesiva della salute e sicurezza sul luogo di lavoro ai danni di una collega, dall’altro di aver dolosamente taciuto la circostanza (e l’esistenza di una condanna penale così rilevante), all’atto dell’assunzione. In esito al procedimento, il lavoratore era stato sanzionato con il provvedimento della sospensione dal lavoro e dalla retribuzione per 10 giorni.
Il Tribunale milanese, chiamato a giudicare sull’impugnativa spiegata dal lavoratore, annullava il provvedimento sanzionatorio.
Sul primo punto, il Giudice, a parere di chi scrive decidendo in modo opinabile, rilevava che il provvedimento della sospensione non era adeguato a sanzionare una violazione della salute e sicurezza sul luogo del lavoro, che avrebbe invece dovuto essere sanzionato con un provvedimento espulsivo.
Ciò, argomentava il giudicante, in quanto stante la gravità del fatto contestato, “la natura [ndr. conservativa] della sanzione disciplinare irrogata (…) appare contraddittoria e antitetica rispetto alle premesse poste nella contestazione disciplinare”, il che porterebbe alla conclusione che l’unica sanzione legittima sarebbe potuta essere quella del licenziamento.
Quanto alla presunta violazione del presunto obbligo di esibire i carichi pendenti, il giudicante milanese escludeva inoltre l’esistenza di un generico dovere informativo in capo al lavoratore, all’atto dell’assunzione, in ordine all’esistenza di precedenti penali a proprio carico, al di fuori delle ipotesi in cui, nel lavoro pubblico o in relazione a specifiche posizioni lavorative, ciò costituisca oggetto di precisa richiesta del datore.
Concludendo, è interessante notare come la sentenza in analisi abbia ribadito – e specificato con riferimento alla fase di selezione del personale – il principio in base al quale solo in determinate circostanze è lecito chiedere al lavoratore di esibire il “certificato penale”, o “casellario giudiziale”, riportante le condanne penali subite (anche in conformità con quanto stabilito dall’art. 8 dello Statuto dei Lavoratori); mentre, si ricorda, permane l’assoluto divieto di chiedere il “certificato carichi pendenti”, che interferirebbe sulla presunzione di innocenza di ciascun cittadino fino a sentenza definiva di condanna (Cass. sent. del 17 luglio 2018, n. 19012).

Entro il 6.07.19 l’Italia dovrà recepire la Direttiva (UE) n. 1371/17 (c.d. “Direttiva PIF”) relativa alla lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione Europea. Le frodi IVA rientreranno così nel novero dei reati presupposto del D.Lgs. 231/01. La Direttiva PIF dispone, infatti, che le persone giuridiche possono essere ritenute responsabili dei “reati gravi contro il sistema comune dell’imposta sul valore aggiunto” commessi, a loro vantaggio o nel loro interesse, da soggetti apicali. Per reato grave, deve intendersi quel reato avente profili di transnazionalità poiché interessante due o più Stati dell’UE. Inoltre, il pregiudizio per l’interesse finanziario dell’UE, affinché il reato possa definirsi grave e comportare l’applicazione di una sanzione, deve ammontare ad almeno 10 milioni di Euro. La Direttiva PIF prevede, fra le altre, sanzioni sia di tipo interdittivo sia pecuniarie. Le prime ricomprendono l’esclusione dal godimento di un beneficio o di un aiuto pubblico, la chiusura temporanea o permanente degli stabilimenti utilizzati per la commissione del reato fino al commissariamento giudiziale o allo scioglimento dell’ente. Alla luce di quanto sopra, sarà necessario ripensare ed aggiornare i MOG231. Peraltro, questo intervento legislativo permetterà di includere nel catalogo dei reati presupposto ex D.Lgs. 231/01 i reati prettamente tributari, riducendo, almeno in misura astratta, in sede giudiziale il rischio di pericolose interpretazioni giurisprudenziali non ancorate a dati normativi tipizzati.

La Corte di Appello di Milano, con sentenza n. 2116 del 22 gennaio 2019, si è pronunciata, riformando la sentenza di primo grado n. 483/2017 del Tribunale di Monza, sulla validità del patto di prova accluso al contratto di lavoro e sulla legittimità del recesso intimato per mancato superamento della prova stessa.

 

Il fatto

 

Un dirigente ricorreva al Tribunale di Monza affinché dichiarasse nullo il patto di prova accluso al suo contratto di lavoro e conseguentemente illegittimo il licenziamento intimatogli, con condanna della società, sua ex datrice di lavoro, al pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso e dell’indennità supplementare.

Ad avviso del Tribunale il patto di prova era nullo in quanto il riferimento alla figura di “Direttore Commerciale” non era idoneo ad integrare il requisito di specificità delle mansioni richiesto dalla giurisprudenza, al punto da non consentire al dirigente l’individuazione del contenuto del patto e dei compiti da svolgere.

Il Giudice di prime cure sosteneva, altresì, che tanto più è apicale il ruolo attribuito al lavoratore ovvero quanto più si tratta di lavoro intellettuale e non meramente esecutivo, tanto maggiore deve essere il grado di determinatezza e specificità richiesto nell’indicazione delle mansioni.

Sempre secondo il Tribunale di Monza, nel caso in esame, alla mancata specificazione delle mansioni nel contratto individuale di lavoro non poteva supplire il richiamo alla contrattazione collettiva, poiché essa “contiene una mera elencazione del personale con livello dirigenziale”.

In tale contesto, il Giudice di prime cure riteneva pure irrilevante, ai fini della legittimità del patto di prova, la circostanza che il ricorrente avesse già in precedenza svolto mansioni analoghe a quelle dedotte nel contratto di assunzione.

Il Giudice accoglieva così, con sentenza n. 483/2017, il ricorso presentato dal dirigente. Avverso la decisione di primo grado ricorreva in appello la società soccombente, chiedendo che venisse (i) accertata la validità del patto di prova; (ii) dichiarata la legittimità del recesso effettuato e, per l’effetto, riformata la sentenza di primo grado anche nella parte in cui aveva condannato la stessa al pagamento in favore del dirigente dell’indennità sostitutiva del preavviso (oltre al versamento della relativa contribuzione previdenziale) e dell’indennità supplementare.

 

La decisione della Corte d’Appello

 

La Corte di Appello di Milano ha accolto il ricorso della società datrice di lavoro, riformando in toto la sentenza di primo grado.

Nello specifico la Corte d’Appello ha statuito che, soprattutto nei casi di lavoro intellettuale e non meramente esecutivo, le mansioni non devono necessariamente essere indicate in dettaglio, essendo sufficiente che, in base alla formula adoperata nel contratto, siano determinabili.

Secondo la Corte d’Appello, l’assunzione con la qualifica di Dirigente ai sensi del CCNL Dirigenti Industria e l’attribuzione delle mansioni di “Direttore Commerciale” erano dati sufficientemente chiari e specifici perché il lavoratore comprendesse il tipo di mansioni che l’azienda gli chiedeva di svolgere.

Contrariamente a quanto sostenuto dal Tribunale di Monza, inoltre, la Corte di Appello ha rilevato che l’indicazione delle mansioni all’interno patto di prova operata “per relationem” alle declaratorie del CCNL di settore, fosse del tutto sufficiente ad individuare con certezza quelle assegnate all’appellato.

Sul punto, infatti, la Corte d’Appello ha osservato che il CCNL Dirigenti Industria:

  • qualifica come dirigente il lavoratore “che ricopre in azienda un ruolo caratterizzato da un elevato grado di professionalità, autonomia e potere decisionale ed esplica la sua funzione al fine di promuovere, coordinare e gestire la realizzazione degli obiettivi di impresa” e
  • precisa che rientrano in questa definizione “i direttori, i condirettori, coloro che sono posti con ampi poteri direttivi a capo di importanti servizi o uffici (…)”.

 

Peraltro, la Corte d’Appello ha evidenziato che nelle trattative antecedenti l’assunzione era stato chiarito al lavoratore che la posizione proposta era quella di “Responsabile Commerciale” con compiti di sviluppo della politica commerciale, dovendo la società ancor meglio definire “la propria strategia sia in termini di ricerca di partner che di strategia di vendita per tipologia di prodotti”.

Nella valutazione complessiva effettuata dalla Corte di Appello di Milano è stato dato risalto anche il fatto che il dirigente avesse già svolto mansioni di direttore commerciale in precedenti aziende per cui appariva del tutto improbabile che lo stesso non avesse pienamente compreso quali fossero le mansioni oggetto della prova.

Pertanto, a parere della Corte d’Appello di Milano, il ruolo di “Direttore Commerciale” associato, da un lato alla qualifica di “Dirigente” così come definita dal CCNL applicato e, dall’altro, al tipo di attività svolta, ha circoscritto con una certa precisione le mansioni oggetto del patto di prova. Mansioni, oltretutto, congruenti con quelle indicate nel patto stesso, non essendosi mai lamentato, come è emerso dalle risultanze istruttorie, il lavoratore nei quasi 6 mesi di lavoro di non aver svolto le funzioni di “Direttore Commerciale”.

Così statuendo, la Corte di Appello di Milano ha ritenuto del tutto valido il patto di prova e condannato, così, il dirigente a restituire alla società quanto percepito in esecuzione della sentenza di prima grado, oltre alle spese del doppio grado di giudizio.

 

 

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La Corte di Cassazione, con la sentenza 3147 del 1° febbraio 2019, ha osservato che il datore di lavoro può integrare in sede giudiziale le motivazioni rese in occasione del licenziamento se insufficienti o generiche.

I fatti

La Corte d’Appello territorialmente competente, confermando la sentenza di primo grado, aveva dichiarato legittimo il licenziamento intimato ad un dirigente, avente funzioni di “Direttore di stabilimento”.

Nello specifico la Corte d’Appello aveva affermato che:

  • la lettera di licenziamento conteneva una concisa, seppur sufficiente, motivazione, ossia soppressione della posizione nell’ambito di una riorganizzazione delle strutture con impossibilità di ricollocarlo in un altro ruolo, e
  • l’istruttoria espletata aveva dimostrato come l’effettiva riorganizzazione avesse comportato una diversa impostazione della direzione dello stabilimento.

Avverso la decisione della Corte d’Appello ricorreva i in cassazione il dirigente.

La decisione della Corte di Cassazione

A parere della Corte di Cassazione i giudici di merito hanno correttamente intrepretato l’art. 22 del CCNL dei Dirigenti Industria del 1985, valutando sia il tenore della sua clausola contrattuale sia la rilevanza attribuita dalle parti sociali alla carenza o incompletezza della motivazione del licenziamento, rilevanza che si desume dalla lettura completa della disposizione.

Nello specifico l’art. 22 prevede(va) che “nel caso di risoluzione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato, la parte recedente deve darne comunicazione per iscritto all’altra parte. Nel caso di risoluzione ad iniziativa dell’azienda, quest’ultima è tenuta a specificarne contestualmente la motivazione. Il dirigente ove ritenga che la motivazione addotta dall’azienda, ovvero nel caso in cui detta comunicazione non sia stata fornita contestualmente alla comunicazione di recesso, potrà ricorrere al Collegio arbitrale di cui all’art 19 (…)”.

Secondo la Corte di Cassazione, i giudici di merito hanno ben spiegato che:

  • la motivazione, seppur concisa era individuata, quindi, specifica e tale da consentire al dirigente di comprendere quale fosse la ragione del recesso e
  • la società, nella proprio scritto difensivo, aveva esplicitato i contenuti della riorganizzazione e
  • l’istruttoria espletata aveva confermato l’intervenuta effettiva ristrutturazione aziendale.

In dettaglio, la Corte di Cassazione, ribadendo un suo precedente orientamento, ha evidenziato come il licenziamento del dirigente è da considerarsi illegittimo – con la conseguente condanna del datore di lavoro al pagamento dell’indennità supplementare come prevista dalla Contrattazione Collettiva – quando non è sorretto da alcun motivo o è sorretto da un motivo pretestuoso e dunque non corrispondente al vero.

Nel caso de quo, invece, il licenziamento era stato intimato a causa della soppressione della posizione di Direttore di stabilimento ricoperta dal dirigente, nell’ambito di una riorganizzazione delle strutture societarie. Licenziamento, peraltro, non scongiurabile giacché, come precisato nella lettera di licenziamento, non vi erano all’epoca dei fatti posizioni vacanti cui lo stesso dirigente avrebbe potuto essere assegnato.

La Corte di Cassazione ha, altresì, confermato come in fase istruttoria era stato dimostrato che dopo il licenziamento del dirigente nessun altro direttore era stato assunto al suo posto e che la direzione dello stabilimento era stata avocata dalle due figure gerarchicamente sovraordinate a quelle del dirigente.

In considerazione di tutto quanto sopra esposto, la Corte di Cassazione ha affermato il seguente principio di diritto Qualora la motivazione del licenziamento di un dirigente non sia stata resa (ovvero, risulti insufficiente o generica), il datore di lavoro, nel rispetto del principio del contraddittorio ex art. 19, comma 3 del ccnl citato (ndr CCNL Dirigenti Industria), può esplicitarla (od integrarla) nell’ambito del giudizio arbitrale, e, nell’ipotesi in cui il dirigente abbia scelto, in conformità al principio di alternatività delle tutele nelle controversie del lavoro, di adire direttamente il giudice ordinario, analoghe facoltà vanno riconosciute alla parte datoriale nell’ambito del processo”. In caso contrario, secondo la Corte di Cassazione, la posizione del datore di lavoro verrebbe ad essere compromessa per effetto di una autonoma ed insindacabile determinazione della controparte.

La Corte di Cassazione, con sentenza 4670 del 18 febbraio 2019, ha affermato che i controlli, demandati dal datore di lavoro ad agenzie investigative, sono consentiti se finalizzati a verificare comportamenti del dipendente che possono configurare ipotesi penalmente rilevanti od integrare attività fraudolente, fonti di danno per il datore medesimo.

I fatti

Una società, operante nel settore dell’industria alimentare, aveva scoperto, per il tramite di un’agenzia di investigazione privata, che nei giorni 22, 23 e 24 dicembre 2014 nonché nei giorni 22 e 23 gennaio 2015 e 5 febbraio 2015, un proprio dipendente, anziché prestare assistenza al familiare per il quale aveva chiesto un permesso ex art. 33 della Legge 104/1992, aveva svolto attività varie di tipo personale (presso esercizi commerciali ed altri luoghi comunque diversi da quello deputato all’assistenza).

Pertanto, la società aveva azionato un procedimento disciplinare nei confronti del dipendente all’esito del quale aveva adottato nei suoi confronti la sanzione espulsiva del il licenziamento per giusta causa.

Il lavoratore aveva adito, dunque, il Tribunale del lavoro affinché dichiarasse illegittimo il licenziamento in questione con tutte le conseguenze di legge che ne sarebbero derivate.

Il Tribunale, pur scorporando dalla contestazione disciplinare le giornate del 22, 23 e 24 dicembre in quanto giorni feriali, avendo l’azienda deciso di sospendere l’attività lavorativa per le festività natalizie, aveva respinto la domanda del lavoratore, dichiarando legittimo il licenziamento.

Il lavoratore aveva così proposto reclamo dinanzi la Corte di Appello territorialmente ai sensi della L. n. 92 del 2012, adducendo altresì che l’agenzia investigativa non avesse la licenza per eseguire l’attività di investigazione.

La Corte di Appello aveva confermato la sentenza di primo grado e, in particolare, aveva dichiarato legittimo il licenziamento sull’assunto che i controlli investigativi finalizzati all’accertamento dell’utilizzo improprio dei permessi ex L. 104/1992 non avevano riguardato l’adempimento della prestazione. Ciò in quanto essi erano stati effettuati al di fuori dell’orario di lavoro ed in fase di sospensione dell’obbligazione principale di rendere tale prestazione.

La Corte distrettuale aveva ritenuto, quindi, utilizzabili gli esiti di tale investigazione e così anche delle dichiarazioni testimoniali rese dagli investigatori che avevano effettuato i controlli, non senza rilevare la tardività delle deduzioni in ordine alla mancanza della licenza prefettizia in favore dell’agenzia investigativa incaricata degli accertamenti.

In conclusione, la Corte aveva ritenuto integrato un abuso del diritto di cui all’art. 33 della L. 104/1992, in violazione dell’affidamento riposto nel dipendente ed integrante una condotta così grave da giustificare l’adottato provvedimento pur in assenza di precedenti disciplinari.

Il lavoratore ricorreva così in cassazione avverso la sentenza della Corte d’Appello.

La decisione della Corte

La Corte di Cassazione adita, nel confermare la decisione della Corte di Appello territorialmente competente, ha:

  • da un lato, sottolineato la tardività dell’eccezione formulata dal lavoratore in merito alla mancanza della licenza dell’agenzia investigativa, e
  • dall’altro, richiamando un precedente orientamento giurisprudenziale, osservato che i controlli, demandati dal datore di lavoro ad agenzie investigative, riguardanti l’attività lavorativa del dipendente e svolti anche al di fuori dei locali aziendali, non sono preclusi ai sensi degli artt. 2 e 3 st. lav. Resta inteso che detti controlli non devono riguardare l’adempimento della prestazione lavorativa, ma devono essere finalizzati a verificare comportamenti che possono configurare ipotesi penalmente rilevanti od integrare attività fraudolente, fonti di danno per il datore medesimo (cfr Cass. 12 settembre 2018, n. 22196; Cass. 11 giugno 2018, n. 15094; Cass. 22 maggio 2017, n. 12810).

Secondo la Corte di Cassazione le agenzie per operare lecitamente non devono sconfinare nella vigilanza dell’attività lavorativa vera e propria, riservata, dall’art. 3 dello Statuto, direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori. E’, pertanto, giustificato l’intervento in questione non solo per l’avvenuta perpetrazione di illeciti e l’esigenza di verificarne il contenuto, ma anche in ragione del solo sospetto o della mera ipotesi che illeciti siano in corso di esecuzione (v. Cass. 14 febbraio 2011, n. 3590; Cass. 20 gennaio 2015, n. 848).

A parere della Corte a quanto detto non ostano sia il principio di buona fede sia il divieto di controllo a distanza di cui all’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori, ben potendo il datore di lavoro decidere autonomamente come e quando compiere il controllo, anche occulto, ed essendo il lavoratore tenuto ad operare diligentemente durante il rapporto di lavoro (cfr Cass. 10 luglio 2009, n. 16196). Ciò in quanto la condotta assunta dal lavoratore:

  • si palesa come lesiva della buona fede, privando ingiustamente il datore di lavoro della prestazione lavorativa in violazione dell’affidamento riposto nello stesso ed
  • integra nei confronti dell’Ente previdenziale erogatore del trattamento economico, un’indebita percezione dell’indennità ed uno sviamento dell’intervento assistenziale.

Conclusioni

Dalla sentenza in commento si evince, in sostanza, che il datore di lavoro può legittimamente rivolgersi ad una agenzia investigativa al fine di verificare se, durante i periodi di sospensione del rapporto di lavoro per assistenza familiare, il lavoratore anziché assistere il familiare disabile, svolga altra attività e, nel caso di accertamento positivo, può legittimamente procedere con il licenziamento.

 

 

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Attività investigativa: accertamento atti illeciti non riconducibili alla prestazione lavorativa