Il 10.01.19 il Consiglio dell’Ordine nazionale dei commercialisti, di concerto con l’ABI, il Consiglio Nazionale Forense e Confindustria, ha reso pubblico il Documento recante i “Principi consolidati per la redazione dei modelli organizzativi e l’attività dell’organismo di vigilanza e prospettive di revisione del D.Lgs. 231/01”. La finalità è di garantire un sistema di compliance aziendale in grado di prevenire efficacemente la commissione dei reati presupposto di cui al D.Lgs. 231/01. Il Documento fornisce spunti interessanti per: (i) la definizione dei principi da seguire nella predisposizione dei modelli 231; (ii) l’individuazione di norme di comportamento che i componenti degli ODV – in mancanza dei quali anche il modello più strutturato non può definirsi efficacemente attuato e non può evitare le sanzioni a carico dell’ente in caso di commissione dell’illecito – devono osservare nell’espletamento del loro incarico; (iii) la elaborazione di alcune proposte di modifica normativa per far fronte alle principali criticità registratesi nella prassi con riferimento ai principi sottesi al D.Lgs. 231/01. Il Documento rappresenta una prova della centralità che nel nostro ordinamento sta assumendo il tema della sostenibilità aziendale. I modelli 231 costituiscono, infatti, strumenti tesi a garantire la legalità, la trasparenza ed il buon funzionamento di tutti gli aspetti gestionali delle imprese. In questo contesto si ricorda che è al vaglio del Senato un disegno di legge che se approvato comporterà, in presenza di determinati requisiti, l’obbligatorietà del modello 231 e dell’organismo di vigilanza.
La Cassazione, con sentenza n. 4672 depositata il 18 febbraio scorso , è tornata a pronunciarsi sulla legittimità del licenziamento per soppressione della posizione allorché essa sia ripristinata pochi mesi dopo il recesso aziendale.
La vicenda prende le mosse dal caso di una lavoratrice – ingegnere tecnico elettronico, specializzato in sistemi di misurazione, a capo dell’ufficio Compliance della subsidiary italiana di una multinazionale giapponese – operante come “Quadro” e addetta alla “metrologia”. In particolare, la dipendente era stata licenziata per giustificato motivo oggettivo a causa della soppressione della posizione lavorativa ricoperta, dovuta all’abrogazione di una normativa in materia di controlli che aveva reso l’attività di controllo demandata alla stessa non più richiesta.
La dipendente aveva tempestivamente impugnato il licenziamento rilevando, tra le altre eccezioni, il fatto che la società resistente avesse ripristinato la posizione soppressa dopo soli 7 mesi dalla sua soppressione. I giudizi di merito concludevano entrambi con il rigetto delle doglianze avanzate dalla dipendente, ritenendo la soppressione effettiva ed il lasso di tempo trascorso dalla soppressione al ripristino idoneo a giustificare un mutamento organizzativo aziendale comportante il reinserimento in organico della funzione aziendale in precedenza soppressa.
Approdata in Cassazione, l’azione della lavoratrice non trovava destino diverso.
Pronunciandosi sull’unico motivo di ricorso, con il quale la lavoratrice aveva lamentato l’erronea valutazione da parte dei giudici di merito circa la ripartizione e i criteri di assolvimento degli oneri probatori (con particolare riferimento a quelli in capo al datore di lavoro), la Cassazione riteneva ancora una volta infondate le rivendicazioni attoree. Sul punto, è interessante rilevare come sia stata posta una particolare attenzione riguardo all’arco temporale intercorso tra la soppressione e il ripristino della posizione detenuta dalla lavoratrice licenziata, confermando come esente da vizi la decisione delle corti di merito, che avevano ritenuto inidoneo ad inficiare la validità del licenziamento il periodo di sette mesi intercorso (similmente, sempre la Suprema Corte, con sentenza n. 11413 dell’11 maggio 2018, aveva ritenuto 8 mesi un arco temporale congruo)….
Continua qui a leggere la nota a sentenza pubblicata su Il Quotidiano del Lavoro de Il Sole 24 Ore.
L’aumento del contenzioso e dell’importo economico delle transazioni, insieme a uno scenario che si è fatto più instabile e incerto e che per questo potrebbe scoraggiare i datori di lavoro dall’assumere. Per Vittorio De Luca, managing partner di De Luca & Partners, sono alcuni degli effetti che si potrebbero avere in seguito a una recente sentenza della Corte Costituzionale. Quest’ultima ha infatti dichiarato incostituzionale la parte del contratto a tutele crescenti in cui si stabiliva che, in caso di licenziamento illegittimo del dipendente assunto dopo il 2015, il datore di lavoro fosse condannato al pagamento di un’indennità risarcitoria pari a due mesi di stipendio per anno di servizio, comunque ricompresa in una forbice che andava da un minimo di quattro fino a un massimo di 24 mensilità. «L’intento del legislatore era di ridurre la discrezionalità e aleatorietà delle sentenze, lasciando ai giudici solamente la valutazione sulla eventuale illegittimità del licenziamento», spiega De Luca. La sentenza, per l’esperto, fa invece un passo in altra direzione: «Secondo la Corte, infatti, non può essere sottratta al giudice la possibilità di stabilire l’indennità spettante per la quale l’organo giudicante potrà considerare fattori come il numero dei dipendenti occupati, le dimensioni dell’attività economica, il comportamento e le condizioni delle parti». Criteri che però per De Luca sono soggettivi e snaturano la razio alla base della quale il legislatore del 2015 aveva introdotto il contratto a “tutele crescenti”. A questo si è aggiunto il decreto Dignità varato dal nuovo Governo che ha innalzato la soglia minima, portata da quattro a sei mesi di stipendio, e quella massima dai 24 ai 36 mesi. Con un effetto, secondo De Luca, potenzialmente esplosivo, considerato che il giudice può decidere di applicare un’indennità di un importo tra sei e 36 mensilità a prescindere dall’anzianità di servizio. In questo modo, «si è tornati a un quadro normativo incerto, avendo fatto venir meno la prevedibilità del costo del licenziamento, che potrebbe in ultima analisi scoraggiare le imprese dall’assumere». Altri effetti attesi, conclude De Luca, sono «l’aumento del contenzioso, con i lavoratori più propensi ad andare in giudizio, e dell’importo economico delle transazioni».
Lo scorso 14 novembre 2018 sono state pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale n. 45 le motivazioni – depositate il precedente 9 novembre – della sentenza n. 194/2018 con cui la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23 limitatamente alle parole “di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”.
La questione di costituzionalità era stata sollevata con ordinanza del 26 luglio 2017 dalla terza sezione Lavoro del Tribunale di Roma, nell’ambito di un giudizio instaurato da una dipendente assunta in data 11 maggio 2015 e licenziata 7 mesi dopo per una riorganizzazione aziendale sulla base di una succinta motivazione. Nell’ambito del predetto giudizio, la Società era rimasta contumace e all’atto della decisione il Tribunale di Roma rilevava che se la ricorrente fosse stata assunta in data antecedente all’entrata in vigore del d.lgs. 23/2015, avrebbe ricevuto la tutela di cui al settimo comma dell’art. 18, l. 300/1970 «per il caso di assenza del motivo oggettivo (definito come difetto di giustificazione, manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento), che richiama il comma 4 e il comma 5 a seconda della gravità del vizio» ovvero quella di cui al sesto comma «per il caso di difetto di motivazione». Le disposizioni di legge applicabili al caso esaminato invece imponevano la liquidazione di una indennità risarcitoria predeterminata nel suo ammontare dalla sola anzianità aziendale della lavoratrice.
Il Tribunale adito sollevava pertanto la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 7, lettera c), della legge 10 dicembre 2014, n. 183 e degli artt. 2, 3 e 4 del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 in riferimento agli artt. 3, 4, primo comma, 35, primo comma, 76 e 117, primo comma, della Costituzione – questi ultimi due articoli in relazione all’art. 30 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), alla Convenzione sul licenziamento n. 158 del 1982 adottata a Ginevra dalla Conferenza generale dell’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL) e all’art. 24 della Carta sociale europea. La Corte Costituzionale dichiarati inammissibili numerosi ulteriori profili di censura sollevati e ripercorsi alcuni precedenti giurisprudenziali in tema di quantificazione del danno derivante da licenziamento illegittimo, ha, in definitiva, dichiarato che la principale novità del cd. “contratto a tutele crescenti”, ossia la determinazione dell’indennizzo dovuto per le ipotesi di licenziamento illegittimo sulla base della sola anzianità di servizio è da considerarsi incostituzionale in quanto in contrasto con i principi di uguaglianza e di ragionevolezza.
In dettaglio, secondo la Consulta, il meccanismo di quantificazione del risarcimento previsto dal d.lgs. 23/2015, anche nella formulazione modificata a cura del cd. Decreto Dignità, determina una “indennità rigida, in quanto non graduabile in relazione a parametri diversi dall’anzianità di servizio, e la rende uniforme per tutti i lavoratori. L’indennità assume così i connotati di una liquidazione forfetizzata e standardizzata….del danno derivante al lavoratore dall’ingiustificata estromissione dal posto di lavoro a tempo indeterminato”. Sotto tale profilo dunque la norma contrasta con il principio di uguaglianza in quanto produce una ingiustificata omologazione di situazioni diverse, dal momento che finisce col prevedere “una misura risarcitoria uniforme, indipendente dalle peculiarità e dalla diversità delle vicende dei licenziamenti intimati dal datore di lavoro, venendo meno all’esigenza di personalizzazione del danno subito dal lavoratore”.
Per la Consulta, inoltre, il criterio di indennizzo introdotto dal Jobs Act, anche nella formulazione modificata dal Decreto Dignità, contrasta con il principio di ragionevolezza, in quanto l’indennità di due mensilità non è sufficiente a garantire “adeguato ristoro del concreto pregiudizio subito” dal licenziato, né può essere considerata idonea a dissuadere il datore intenzionato a “licenziare illegittimamente”. Secondo la Corte Costituzionale dunque nella determinazione del danno dovuto al lavoratore illegittimamente licenziato, fermi i limiti previsti dalla legge, non può prescindersi anche da altri criteri, quali quelli “desumibili in chiave sistematica dall’evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti (numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell’attività economica, comportamento e condizioni delle parti)”.
L’effetto della sentenza in commento è stato quello di snaturare interamente la portata innovativa del contratto a tutele crescenti introdotto dal Governo Renzi. Per effetto della accertata incostituzionalità, ad oggi, infatti, la discrezionalità dei Giudici trova ampio spazio anche per i licenziamenti relativi a risorse assunte dopo il 7 marzo 2015 e dovrà essere esercitata – come afferma la Corte – “nel rispetto dei limiti” – che per effetto del Decreto Dignità sono oggi pari a n. 6 mensilità e massimo n. 36 mensilità – “tenendo conto non solo dell’anzianità di servizio, ma anche degli altri criteri”.
Pur non trattandosi di una sentenza cd. “additiva” è fuor di ogni dubbio che i criteri indicati dalla Corte Costituzionale saranno i medesimi posti a base delle decisioni di merito nella determinazione del danno.
Ad oggi, pertanto, al di fuori dei casi di nullità di licenziamento, la discrezionalità dei Giudici sarà l’elemento determinante l’ammontare del danno dovuto ai lavoratori in ipotesi di licenziamento illegittimo, con la differenza che, una data di assunzione successiva all’entrata in vigore del Jobs Act, può arrivare a determinare – in taluni casi – un danno pari a n. 36 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR: maggiore, dunque, rispetto alle n. 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto spettanti ad un dipendente assunto prima del 7 marzo 2015 e rientrante sotto la disciplina dell’art. 18, l. 300/1970. Per i datori di lavoro che rispettano il requisito dimensionale di cui all’art. 18, comma 8, l. 300/1970 il rischio causa connesso ad un licenziamento, infatti, risulta essere diverso in dipendenza: in primis, della data di assunzione del dipendente e del vizio che verrà accertato in corso di causa, e in secondo luogo, della discrezionalità del Giudice designato.
Così, ad esempio, in caso di licenziamento illegittimo per manifesta insussistenza del motivo oggettivo di licenziamento, per i lavoratori assunti prima del 7 marzo 2015 – e dunque sottoposti al regime di cui all’art. 18, l. 300/1970 – troverà luogo la cd. tutela reale attenuata di cui al comma 4 dell’art. 18, l. 300/1970. Lo stesso accertato vizio per un dipendente assunto dopo il 7 marzo 2015 darà luogo invece al pagamento di un’indennità risarcitoria compresa tra un minimo di n.6 e un massimo di n.36 mensilità, senza lasciare spazio a sentenze di reintegrazione.
Viceversa, la tutela di cui al d.lgs. 23/2015 potrebbe risultare più favorevole per le ipotesi in cui il Giudice accerti che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo oggettivo. In tal caso, infatti, la determinazione dell’ammontare del danno dovuto sarebbe rimessa alla discrezionalità del Giudice adito, ma entro limiti ben diversi. Nel caso di lavoratori sottoposti all’art. 18, l. 300/1970, il danno verrebbe determinato da un minimo di n.12 a un massimo di n.24 mensilità della retribuzione globale di fatto in dipendenza di: (i) anzianità del lavoratore; (ii) numero dipendenti occupati; (iii) dimensioni dell’attività economica; (iv) comportamento e (v) condizioni delle parti. Nel caso di lavoratori sottoposti al d.lgs. 23/2015, il danno verrebbe determinato – sulla base degli stessi criteri – da un minimo di n. 6 a un massimo di n. 36 mensilità dell’ultima retribuzione utile per il calcolo del TFR.
Tra l’altro, vi è da sottolineare che la Consulta si è espressa unicamente sulla portata dell’art. 3, comma 1, d.lgs. 23/2015, senza alcuna pronuncia in merito alla medesima disposizione contenuta all’art. 4, d.lgs. 23/2015 che nel disciplinare il risarcimento dovuto in caso di vizi formali del licenziamento stabilisce: “…una mensilità… per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a n. 2 e non superiore a n. 12 mensilità”. Nonostante tale disposizione non sia stata tacciata di illegittimità costituzionale, appare logico ritenere che nelle aule di tribunale ne verrà fornita una lettura costituzionalmente orientata con ampi margini per la discrezionalità del Giudice adito nella determinazione dell’ammontare del risarcimento dovuto anche in presenza di vizi formali.
Appare in definitiva oltremodo evidente che la sentenza in commento, in uno con la modifica apportata al Jobs Act dal Decreto Dignità, cambia sensibilmente lo scenario del rischio causa connesso ad un licenziamento illegittimo, non potendosi, di fatto, più ritenere la tutela prevista dal d.lgs. 23/2015 più “conveniente” – da un punto di vista prettamente datoriale – rispetto a quella approntata dall’art. 18, l. 300/1970 come modificato dalla l. 92/2012.
La Corte di Appello di Torino, con sentenza n. 26 depositata il giorno 11 gennaio 2019 e pubblicata il successivo 4 febbraio, ha accolto parzialmente l’appello proposto da 5 ciclofattorini (cd. “riders”) di una nota società tedesca di consegna di cibo a domicilio, avverso la sentenza del Tribunale di Torino (778/2018) che aveva negato sia la natura subordinata dei rapporti di lavoro intercorsi sia la loro riconducibilità alle collaborazioni etero-organizzate di cui all’art. 2 del D.Lgs. 81/2015.
Ricordiamo che, a distanza di pochi mesi della pronuncia del Tribunale di Torino, la giurisprudenza di merito si era pronunciata su un caso analogo, rigettando il ricorso di un ex-rider che rivendicava la natura subordinata del rapporto di lavoro intercorso con un’altra società del settore della distribuzione (Tribunale di Milano 10 settembre 2018 n. 2853).
La decisione del Tribunale di Torino
In primo grado i riders avevano, tra le altre, rivendicato: (i) la corresponsione delle somme a loro dovute a titolo di differenze retributive e competenze di fine rapporto in forza dell’inquadramento nel V livello del CCNL Logistica o nel VI livello del CCNL del Terziario; (ii) il ripristino del rapporto di lavoro ed il pagamento delle retribuzioni maturate dalla data del licenziamento a quello dell’effettiva ricostituzione, previo accertamento della nullità, inefficaci o illegittimità del recesso.
La sentenza del Tribunale di Torino ha, in sostanza, rappresentato la prima decisione in merito alla qualificazione del rapporto di lavoro dei riders nell’era della cd. “gig economy”.
Secondo il Tribunale la loro prestazione lavorativa non può essere ricompresa nell’alveo del lavoro subordinato di cui all’art. 2094 cod. civ. Ciò in considerazione del:
Il Tribunale di Torino non ha accolto neppure la domanda, proposta in subordine dai riders e relativa all’applicazione dell’art. 2 del D.Lgs. n. 81/2015, secondo il quale “a far data dal 1° gennaio 2016 si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”.
A parere del Tribunale detta norma è applicabile solo nel caso in cui il lavoratore sia sottoposto al potere direttivo e organizzativo del datore di lavoro, non essendo sufficiente, a tal fine, che il potere in questione si estrinsechi solo con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro.
La decisione della Corte di Appello di Torino
La Corte di Appello di Torino, alla luce dell’istruttoria svolta nel corso del giudizio di primo grado, ha ritenuto:
Secondo la Corte d’Appello le collaborazioni di cui al predetto articolo rappresentano un terzo genere di rapporto di lavoro “che si viene a porre tra il rapporto di lavoro subordinato di cui all’articolo 2094 c.c. e la collaborazione come prevista dall’articolo 409 n. 3 c.p.c., evidentemente per garantire una maggiore tutela alle nuove fattispecie di lavoro che, a seguito dell’evoluzione e della relativa introduzione sempre più accelerata delle recenti tecnologie, si stanno sviluppando” (cd. collaborazione etero-organizzate).
Le collaborazioni etero-organizzate, infatti, pur senza “sconfinare” nell’esercizio del potere gerarchico (tipico della subordinazione) si caratterizzano per un’effettiva integrazione funzionale del lavoratore nell’organizzazione produttiva del committente. Proprio l’organizzazione costituisce un elemento che va oltre la semplice coordinazione di cui all’art. 409 cod. proc. civ., in cui il lavoratore pur coordinandosi con il committente organizza autonomamente la propria attività lavorativa.
Alla luce di quanto sopra, la Corte d’Appello ha ritenuto che il rapporto di lavoro dei riders debba ricondursi alle collaborazioni etero-organizzate di cui all’art. 2 del D.Lgs. n. 81/2015. Ciò in quanto: (i) i riders lavoravano sulla base di una “turnistica” stabilita dalla committente; (ii) le zone di partenza erano determinate dalla committente che comunicava ai riders, tramite l’applicativo per lo smartphone, gli indirizzi ove di volta in volta avrebbero dovuto effettuare la consegna; (iii) i tempi di consegna erano predeterminati (30 minuti dall’orario indicato per il ritiro del cibo); (iv) i riders avevano svolto attività in favore della committente in via continuativa.
Dalla predetta classificazione discende, secondo la Corte d’Appello, l’estensione ai riders delle tutele previste per i rapporti di lavoro subordinato (in particolare le norme in materia di sicurezza e igiene, retribuzione diretta e differita, limiti di orario, ferie e previdenza). In altri termini, il rapporto di lavoro, seppur resta tecnicamente autonomo, è assoggettato alla disciplina del lavoro subordinato.
Di conseguenza, la Corte d’Appello:
La Corte d’Appello ha, comunque, escluso l’estensione ai riders della normativa sui licenziamenti tenuto conto, dal un lato, del mancato riconoscimento di un rapporto di lavoro subordinato e dall’altro, del fatto che la collaborazione tra i riders e la società non è stata oggetto di alcuna interruzione essendo i rapporti di collaborazione cessati alla loro naturale scadenza.
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