La Corte d’Appello di Torino, con la sentenza 316/2019, nel dichiarare illegittimo il provvedimento espulsivo intimato ad alcune lavoratrici, nell’ambito di una procedura di licenziamento collettivo, ha dichiarato risolti i rapporti di lavoro e condannato la società datrice di lavoro al pagamento dell’indennità risarcitoria ex art. 3, comma 1, del D.Lgs. 23/2015. La Corte ha utilizzato per la determinazione dell’indennità risarcitoria, alla luce di quanto stabilito dalla Consulta, i criteri di cui all’art. 8, della L. 604/1966, ossia l’anzianità di servizio (che resta il primo criterio di riferimento), il numero dei dipendenti occupati, le dimensioni dell’attività economica e le condizioni delle parti.
I fatti di causa
Nel caso di specie alcune lavoratrici assunte nel novembre 2015 – a seguito del subentro della società datrice di lavoro nell’appalto presso cui avevano già prestato attività lavorativa – impugnavano giudizialmente il licenziamento intimato loro all’esito della procedura ex L. 223/1991, chiedendo il pagamento dell’indennità risarcitoria di cui agli artt. 10, 3 e 7 del D.Lgs. 23/2015.
Il Tribunale, accertato l’illegittimo esperimento della procedura di licenziamento collettivo, dichiarava risolti i rapporti e, per l’effetto, condannava la società al pagamento dell’indennità risarcitoria pari a 24 mensilità.
Tale indennità, essendo la pronuncia intercorsa in epoca antecedente alla sentenza della Corte Costituzionale n. 194/2018, veniva calcolata automaticamente sulla base dell’intera anzianità di servizio delle lavoratrici, ai sensi dell’art. art. 7 del Dlgs. 23/2015, considerando anche il periodo di lavoro prestato nell’attività appaltata.
Avverso la decisione di primo grado la società soccombente proponeva appello, eccependo, da un lato, il corretto esperimento della procedura e dall’altro, in tema di computo di anzianità, l’illegittima applicazione al caso di specie dell’art. 7 sopra citato.
La decisione della Corte d’Appello
La Corte di Appello adita, nel rigettare il ricorso proposto dalla società, ha confermato:
In merito a quest’ultimo punto, la Corte ha evidenziato che secondo l’art. 10, del D.Lgs 23/2015, “in caso di licenziamento collettivo ai sensi degli articoli 4 e 24 della legge 23 luglio 1991, n. 223, intimato senza l’osservanza della forma scritta, si applica il regime sanzionatorio di cui all’articolo 2 del presente decreto. In caso di violazione delle procedure richiamate all’articolo 4, comma 12, o dei criteri di scelta di cui all’articolo 5, comma 1, della legge n. 223 del 1991, si applica il regime di cui all’articolo 3, comma 1”.
Da ciò ne consegue che il giudice, qualora la procedura di licenziamento collettivo sia viziata ai sensi dell’art. 4, comma12, della L. 223/1991, come nel caso di specie, in applicazione dell’art 3, comma 1, del D.Lgs. 23/2015 “dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità”.
Pertanto, secondo la Corte di Appello, non vi sono motivi di ritenere che per il computo dell’indennità risarcitoria non si debba tener conto dell’anzianità maturata nell’attività appaltata, invocata dal Tribunale in applicazione dell’art. 7, del d.lgs. 23/2015.
In particolare, tale ultima disposizione dispone che: “Ai fini del calcolo delle indennità e dell’importo di cui all’articolo 3, comma 1, all’articolo 4, e all’articolo 6, l’anzianità di servizio del lavoratore che passa alle dipendenze dell’impresa subentrante nell’appalto si computa tenendosi conto di tutto il periodo durante il quale il lavoratore è stato impiegato nell’attività appaltata”.
Pertanto, è evidente che, nell’ipotesi di avvicendamento delle imprese in appalti, il legislatore ha chiaramente disposto che in caso di applicazione del regime di cui all’art. 3, comma 1 (senza alcuna possibilità di distinguere tra licenziamento individuale e collettivo), il calcolo dell’indennità risarcitoria non è commisurata solo dell’anzianità di servizio maturata presso l’ultima impresa che ha intimato il licenziamento, occorrendo invece tenere conto di tutto il periodo durante il quale il lavoratore è stato impiegato nell’attività appaltata.
Inoltre, secondo la Corte d’Appello, la questione della quantificazione dell’indennità risarcitoria non può che essere risolta alla luce della sentenza 194/2018 della Consulta, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo il citato art. 3, comma 1, del D.lgs. 23/2015.
Sulla base di tali argomentazioni, e in applicazione dei criteri di cui all’art. 8, L. 604/66, a parere della Corte d’appello, la quantificazione operata dal Tribunale appare congrua avuto riguardo all’anzianità di servizio (che resta comunque il primo criterio di riferimento), al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell’attività economica nonché alle condizioni delle parti.
La Corte di Cassazione, con la sentenza 18887 del 15 luglio 2019, ha dichiarato illegittimo il licenziamento intimato al lavoratore che si è rifiutato di prestare la propria attività lavorativa in un giorno infrasettimanale nel quale cadeva una festività celebrativa di una ricorrenza civile.
I fatti di causa
Nel caso di specie una società, a fronte del diniego di un proprio dipendente a lavorare il 1° maggio, azionava nei suoi confronti un procedimento disciplinare che si concludeva con l’intimazione di un licenziamento per giusta causa.
Il lavoratore ricorreva così all’autorità giudiziaria affinché, tra le altre, dichiarasse illegittimo il licenziamento e condannasse la società, sua ex datrice di lavoro, alla reintegrazione nel posto di lavoro e al pagamento in suo favore di una indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal momento del recesso al giorno della effettiva reintegra.
La Corte d’appello territorialmente competente, in riforma della sentenza di primo grado, convertiva il recesso datoriale in “licenziamento per giustificato motivo soggettivo”, condannando la società al pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso.
I giudici di merito a fondamento della propria decisione precisavano, tra l’altro, che: a) ai sensi delle disposizioni del CCNL di settore era possibile per i dipendenti l’obbligo di prestare attività lavorativa in giorno festivo, entro ovviamente i limiti previsti il cui superamento, nel caso di specie, non risultava documentato; b) era corretta la qualificazione di insubordinazione rilevata in primo grado circa il comportamento del lavoratore ma, non essendosi svolto con modalità violente e non essendovi stato un grave nocumento per la società, il licenziamento avrebbe dovuto essere adottato per giustificato motivo soggettivo e con preavviso.
Avverso la decisione della Corte d’Appello il lavoratore ricorreva in cassazione.
La decisione della Corte di Cassazione
La Corte di Cassazione, nell’accogliere il ricorso del lavoratore, ha osservato che i giudici di merito hanno errato nel disporre l’obbligo di lavorare il 1° maggio sulla base di una mera interpretazione del CCNL di settore, che contiene un generico riferimento al lavoro festivo. Ciò in quanto la Legge 260/1949 costituisce una disciplina sovraordinata.
Secondo la Corte detta legge è completa ed autosufficiente nel riconoscere al lavoratore il diritto di astenersi dal prestare la propria attività in determinate festività celebrative di ricorrenze religiose e civili con esclusione, quindi, di eventuali sue integrazioni analogiche o commistioni con altre discipline.
Sempre secondo la Corte solo i soggetti alle dipendenze di istituti sanitari, pubblici e privati, sono obbligati alle prestazioni durante le ricorrenze, come il 25 maggio ed il 1° maggio, sempreché le esigenze di servizio permettano il riposo. In caso contrario il datore di lavoro non può derogare unilateralmente alla fruizione del riposo, anche se dipende da esigenze produttive.
Peraltro, il diritto del lavoratore di astenersi dall’attività lavorativa durante le festività infrasettimanali celebrative di ricorrenze civili è un diritto soggettivo ed è pieno con carattere generale.
Tale diritto non può, quindi, essere vanificato dal datore di lavoro, potendosi rinunciare al riposo nelle festività infrasettimanali solo in forza di un accordo individuale o di un accordo stipulato con le OO.SS cui il lavoratore abbia conferito esplicito mandato.
Sulla scorta di questi principi la Corte di Cassazione ha concluso per la illegittimità del licenziamento intimato al lavoratore con tutte le conseguenze di legge.
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza 15557/2019, ha statuito che un contratto di appalto può essere ritenuto genuino anche qualora descriva in maniera molto dettagliata i compiti che i lavoratori coinvolti dovranno svolgere. Ciò in quanto, ai fini dell’integrazione della fattispecie dell’intermediazione illecita di manodopera, non è sufficiente né l’indicazione analitica delle modalità operative del servizio concesso in appalto, né la necessità di coordinamento con i dipendenti dell’appaltatore.
I fatti di causa
Il caso de quo trae origine dal ricorso presentato da alcuni lavoratori al fine di ottenere l’accertamento della violazione dell’art. 29, comma 1, del D.Lgs. 276/2003 in relazione all’appalto cui erano addetti e, conseguentemente, il riconoscimento del diritto all’assunzione a tempo indeterminato presso la società appaltante. A fondamento della domanda, i lavoratori deducevano la sussistenza del potere direttivo in capo alla società appaltante, stante la predeterminazione da parte di quest’ultima dei tempi e delle modalità di svolgimento delle mansioni. Secondo i lavoratori l’impresa appaltatrice non aveva alcuna potestà organizzativa del servizio, alcun rischio d’impresa, e conseguentemente, alcun potere disciplinare e gerarchico sussisteva in capo ad essa.
La decisione della Corte di Cassazione
La Corte di Cassazione, confermando la decisione di merito che aveva ritenuto genuino l’appalto, ha specificato che la predeterminazione delle modalità esecutive, descritte nel capitolato, rispondeva all’esigenza di adeguare la prestazione alle caratteristiche tecniche del servizio, senza incidere, dunque, sull’autonomia dell’appaltatore nella gestione del rapporto di lavoro e nell’esercizio del potere disciplinare.
La Corte di Cassazione ha evidenziato che il comma 1 dell’art. 29 del D.Lgs. 276/2003 nel definire il contratto di appalto (genuino) rispetto a quello di somministrazione di lavoro, disciplinato dagli artt. 20-28 dello stesso decreto, richiama i due principali elementi che lo caratterizzano ai sensi della disciplina di cui all’art. 1655 cod. civ. Nello specifico, la permanenza in capo all’appaltatore dell’esercizio del potere direttivo e organizzativo nei confronti dei dipendenti utilizzati nell’appalto e l’assunzione del rischio di impresa in capo allo stesso.
Secondo la Corte di Cassazione non integra, quindi, una deviazione da tale schema tipico:
In sostanza e conformemente ai propri precedenti giurisprudenziali, i Giudici di legittimità hanno concluso che si realizza un’ipotesi di intermediazione vietata di manodopera soltanto qualora venga accertato che la società appaltante svolge un intervento direttamente dispositivo e di controllo sulle persone dipendenti dall’appaltatore del servizio. E non è sufficiente a tal fine il mero coordinamento necessario per l’esecuzione del contratto.
La Corte di Cassazione, con la sentenza 14787/2019, è tornata ad occuparsi della delicata questione della tempestività della contestazione disciplinare rispetto all’addebito. In particolare, sono stati sottolineati gli approdi giurisprudenziali in materia, in virtù dei quali il principio dell’immediatezza della contestazione dell’addebito e quello della tempestività del recesso datoriale devono essere intesi in senso relativo. Detti principi possono essere compatibili con un intervallo di tempo necessario per l’accertamento e la valutazione dei fatti contestati, così come per la valutazione delle giustificazioni fornite dal lavoratore. Pertanto, la contestazione disciplinare preordinata al licenziamento è da ritenersi tempestiva quando, sebbene non sia immediata rispetto all’addebito, è comunicata a seguito della decisione di rinvio a giudizio o all’esito del procedimento penale che vede coinvolto il lavoratore.
I fatti di causa
La pronuncia trae origine dal ricorso presentato da due dipendenti di un istituto di vigilanza, i quali, dopo essere stati sospesi cautelarmente a seguito dell’apertura di un procedimento penale per i reati di truffa in danno della stessa società datrice di lavoro, venivano reintegrati per motivi di carattere economico per poi essere licenziati in tronco.
Nel caso di specie, essendo stata differita la contestazione disciplinare ad un momento successivo rispetto all’immediatezza dei fatti, ossia all’esito degli accertamenti scaturenti dal procedimento penale, i lavoratori impugnavano il licenziamento intimato loro per violazione dell’art. 7 della L. n. 300 del 1970. Nello specifico, i medesimi lamentavano la mancata apertura del procedimento disciplinare vero e proprio immediatamente dopo la disposizione della sospensione cautelare, assumendo, pertanto, di aver subito una lesione del proprio diritto di difesa. Ciò in quanto si sarebbero visti intimare un licenziamento disciplinare giustificato da fatti non preventivamente loro contestati.
La decisione della Corte di Cassazione
La Corte di Cassazione, avvalorando in parte quanto statuito dai giudici di merito, ha reputato compatibile con il principio della tempestività della contestazione disciplinare la decisione del datore di lavoro di rinviare l’avvio della stessa all’esito degli accertamenti svolti in sede penale. La Corte ha così ritenuto comprensibile il lasso di tempo trascorso tra la data di consegna al datore di lavoro degli atti di indagine compiuti e la notifica della contestazione disciplinare.
La pronuncia in commento si inserisce così nel solco interpretativo già consolidato in materia, confermando che, in caso di sospensione cautelativa di un lavoratore sottoposto a procedimento penale, la contestazione disciplinare può certamente essere differita all’esito degli accertamenti del procedimento penale.
La ratio di tale decisione è da rinvenirsi nell’esigenza di fornire al datore di lavoro elementi certi che gli consentano di compiere una valutazione ponderata dei fatti da contestare al lavoratore, anche in un’ottica di interesse nei confronti dello stesso.
La Corte di Cassazione, inoltre, ha colto l’occasione per rinnovarsi in tema di giusta causa di licenziamento. La nozione di giusta causa, infatti, presenta un contenuto “elastico” ed “indeterminato” tale da richiedere di essere integrato dal contributo dell’interprete mediante valutazioni e giudizi di valore desumibili da “standards” conformi ai valori dell’ordinamento esistenti nella realtà aziendale.
Ebbene, la Corte di Cassazione ha censurato in tal senso la sentenza d’appello nella parte in cui non ha tenuto conto dei predetti “standards”. A parere della stessa la sentenza impugnata non si è soffermata, in particolar modo, sull’adozione, da parte del datore di lavoro, di comportamenti incompatibili con l’impossibilità di prosecuzione temporanea del rapporto di lavoro. Questo atteggiamento datoriale, secondo la Corte, si pone in netto contrasto con il perdurare della giusta causa del recesso esprimendo una volontà contraria all’intento solutorio datoriale.
Di conseguenza, a parere della Corte di Cassazione, la reintegrazione in servizio dei dipendenti precedentemente sospesi, in presenza di indagini penali per ipotizzato reato di truffa, è incompatibile con il successivo licenziamento in tronco attivato nei loro confronti per gli stessi fatti.
È stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale 152 del 1° luglio 2019 la Legge 58/2019 recante la “Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 30 aprile 2019, n. 34 (ndr cd. Decreto Crescita), recante misure urgenti di crescita economica e per la risoluzione di specifiche situazioni di crisi”. Varie le novità in materia di lavoro e previdenza. Innanzitutto, dal 2023 diviene strutturale il meccanismo di riduzione del 32,7% dei premi e dei contributi dovuti all’Inail previsto per gli anni 2019-2021. Vengono, altresì, ampliate le agevolazioni per i lavoratori che rientrano in Italia dopo aver risieduto determinati periodi all’estero (cd. rientro dei cervelli). Nello specifico (i) viene innalzata la soglia del reddito non imponibile; (ii) vengono limitati a 2 gli anni di permanenza all’estero e (iii) viene estesa la possibilità anche ai lavoratori di non alta specializzazione e agli autonomi. Inoltre, viene escluso il requisito dell’iscrizione all’AIRE dal momento del trasferimento all’estero per chi rientra a decorrere dal 2020. Viene introdotto, in via sperimentale, per gli anni 2019 e 2020 il contratto di espansione. Detto istituto riguarda le aziende che hanno in forza oltre 1000 unità, con stipula del relativo accordo presso il Ministero del Lavoro con l’intervento delle parti sociali. In particolare, viene prevista (i) la CIGS per un massimo di 18 mesi per le riduzioni di orario fino a 30% e (ii) la possibilità di esodo anticipato per i dipendenti in esubero a cui mancano massimo 5 anni di età per raggiungere il requisito pensionistico. Viene previsto lo sgravio contributivo per l’assunzione a tempo indeterminato di giovani che hanno conseguito la laurea con il voto di 110 e lode prima dei 30 anni oppure i dottori di ricerca under 34 anni, per massimo 12 mesi e fino ad un massimo di 8000 euro annui. Non da ultimo è stato riconfermato lo stanziamento delle risorse necessarie per l’incentivo delle assunzioni a tempo indeterminato degli under 35 anni o dei disoccupati da più di 6 mesi nelle regioni meridionali, effettuate nel periodo intercorrente tra il 1° gennaio ed il 30 aprile 2019, ossia il periodo rimasto scoperto dal decreto attuativo ANAPL (cd Bonus Sud).