L’INPS, con la circolare 63 del 9 maggio 2019, ha fornito:
Entriamo nel dettaglio della circolare.
Il massimale INPS e il regime prescrizionale dei contributi
A decorrere dal 1° gennaio 1996, a seguito dell’introduzione del massimale della base contributiva e pensionabile di cui all’art. 2, comma 18, della Legge 335/1995, per i lavoratori rientranti nel sistema pensionistico contributivo la retribuzione percepita oltre il limite annualmente fissato (pari ad Euro 102.543 per l’anno 2019) non è assoggettata a contribuzione previdenziale, né viene computata nel calcolo delle prestazioni pensionistiche.
Tuttavia, può accadere che il datore di lavoro, per il calcolo della contribuzione dovuta, assuma come riferimento una retribuzione imponibile superiore rispetto a quella di cui al massimale annuo. In questo caso, lo stesso datore di lavoro può richiedere all’INPS la restituzione della contribuzione versata in eccesso sulla base delle norme che disciplinano l’indebito oggettivo di cui all’art. 2033 cod. civ.
La circolare ricorda che il termine di prescrizione per richiedere la restituzione, ai sensi dell’art. 2946 cod. civ., è di 10 anni. Qualora tale termine decorra inutilmente, le somme rimarranno acquisite all’Istituto anche se, comunque, non produrranno effetti previdenziali.
Inoltre, l’Inps rammenta che all’eccedenza di contribuzione de quo, non si applica l’art. 8 del D.P.R. 818/1957, “il cui regime prevede l’acquisizione alla gestione previdenziale, e il conseguente computo ai fini del diritto alle prestazioni, dei contributi indebitamente versati per i quali l’accertamento dell’indebito versamento sia posteriore di oltre cinque anni dalla data in cui il versamento stesso è stato effettuato”. Ciò in quanto lo scopo dell’art. 2, comma 18, L. 335/1995, è proprio quello di fissare, per i lavoratori privi di anzianità contributiva al 31 dicembre 1995, un “massimale annuo”, che costituisce non solo un tetto inderogabile ai fini della base contributiva ma anche la base dell’età pensionabile. E sul punto l’Istituto richiama la circolare 282 del 15 novembre 1995, con la quale aveva già precisato che i contributi previdenziali e assistenziali indebitamente versati non sono annoverati nell’ambito delle contribuzioni computabili ai fini pensionistici.
Recupero della contribuzione indebita non prescritta
Con la circolare in commento, l’INPS ricorda che, al fine di evitare il ricorrere di versamenti eccedenti rispetto al “massimale annuo”, i datori di lavoro devono in primo luogo individuare il corretto regime previdenziale applicabile ai dipendenti, acquisendo le dichiarazioni degli stessi sia al momento dell’instaurazione del rapporto di lavoro sia nel corso del suo svolgimento.
Sul piano operativo, il datore di lavoro è poi tenuto a dichiarare mensilmente nel flusso Uniemens il regime applicato a ciascun dipendente attraverso la compilazione dell’apposita sezione, apponendovi il valore “S” se il lavoratore è soggetto a regime contributivo o il valore “N” se l’ipotesi non ricorre.
Quanto al recupero sul massimale della contribuzione eccedente non prescritta, l’Inps ricorda che esso può essere richiesto attraverso le seguenti modalità:
Inoltre, i datori di lavoro dovranno trasmettere flussi di variazione Emens per la sistemazione delle posizioni individuali.
Gestione nel flusso Uniemens dell’indennità sostitutiva del preavviso
Infine, l’INPS con la circolare in commento ricorda che per consentire il corretto assoggettamento a contribuzione dell’indennità sostitutiva del preavviso a cavallo di due annualità, corrisposta a un lavoratore soggetto al massimale contributivo, occorre fare riferimento a quanto previsto nel suo messaggio 159/2003. In esso si precisa che il massimale dell’anno interesserà unicamente le quote di indennità che ricadono nell’anno stesso. Dette quote potranno essere integralmente, parzialmente o per nulla assoggettate a contribuzione, a seconda del valore del massimale raggiunto e la quota di indennità, che temporalmente ricade nell’annualità successiva, dovrà essere assoggettata al massimale dell’anno successivo.
La Corte di Cassazione, Sez. Lavoro, con sentenza 13534 del 20 maggio 2019, ha dichiarato legittimo il licenziamento per giusta causa irrogato ad una dipendente che aveva reagito ad uno schiaffo inferto da una collega.
I fatti e i precedenti gradi di giudizio
Una dipendente, addetta alle vendite, reagendo a uno schiaffo inferto da una collega, era venuta alle mani con la stessa alla presenza della clientela. La società, sua datrice di lavoro, aveva così azionato nei suoi confronti un procedimento disciplinare che si era concluso con un licenziamento per giusta causa.
Il Tribunale di Sassari adito dalla dipendente licenziata aveva ritenuto illegittimo il recesso, in quanto la stessa si era difesa da un precedente schiaffo ricevuto.
La Corte di Appello di Cagliari, in riforma della sentenza di primo grado, aveva dichiarato legittimo il recesso de quo poiché la lavoratrice, conoscendo il carattere violento ed aggressivo della collega, aveva volontariamente creato la situazione di pericolo, intimandole, alla presenza di altri colleghi e clienti, di comportarsi in un determinato modo.
La decisione della Corte di Cassazione
Avverso la decisione della Corte di Appello, la lavoratrice ricorreva dinanzi la Corte di Cassazione, denunziando la violazione dell’art. 2219 cod. civ. e dell’art. 229 del Contratto Collettivo Nazionale di lavoro per i Dipendenti del Settore Terziario.
A parere della lavoratrice, il “diverbio litigioso seguito da vie di fatto in servizio anche fra dipendenti, che comporti nocumento o turbativa al normale esercizio dell’attività” previsto dal predetto art. 229 non potrebbe condurre al licenziamento laddove, come nel caso di specie, la condotta sia giustificata da una reazione all’altrui aggressione.
Sul punto la Corte di Cassazione ha affermato che “la contrattazione collettiva non vincola in senso sfavorevole il dipendente”. Anche quando si riscontri la corrispondenza del comportamento del lavoratore alla fattispecie tipizzata contrattualmente come ipotesi che giustifica il licenziamento disciplinare, “deve essere effettuato (…) un accertamento in concreto – da parte del giudice di merito – della reale entità e gravità del comportamento del lavoratore, anche sotto il profilo soggettivo della colpa o del dolo” (v., tra molte, Cass. n. 8826/2017; Cass. n. 10842/2016 etc.)
Sempre secondo la Corte, “l’elencazione delle ipotesi di giusta causa di licenziamento contenuta nei contratti collettivi ha valenza meramente esemplificativa, sicché non preclude un’autonoma valutazione del giudice di merito in ordine all’idoneità di un grave inadempimento (…) a far venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore” (Cass. n. 2830/2016; Cass n. 4060/2011 etc.).
All’opposto, invece, “la contrattazione collettiva vincola in senso favorevole al dipendente”. Infatti, il giudice, ove le previsioni del contratto collettivo siano più favorevoli al lavoratore – nel senso che la condotta addebitata allo stesso è contemplata tra le infrazioni sanzionabili con una misura conservativa – non può ritenere legittimo il recesso. Ciò in quanto si deve “attribuire prevalenza alla valutazione di minore gravità di quel peculiare comportamento, come illecito disciplinare di grado inferiore”
Alla luce di quanto sopra, a parere della Suprema Corte, la Corte di Appello ha correttamente effettuato una valutazione in concreto degli elementi di fatto, ritendo che la condotta della lavoratrice volta a provocare la collega non è paragonabile a quella della lavoratrice che si limiti a reagire all’altrui aggressione. Di conseguenza, la Corte di Cassazione ha respinto il ricorso della lavoratrice confermando la legittimità del licenziamento intimatole.
La Corte di Cassazione, con l’ordinanza 14254 del 24 maggio 2019, ha affermato che, nell’ambito di un licenziamento collettivo per riduzione del personale, non può essere licenziata, onde evitare una discriminazione c.d. indiretta, una percentuale di donne superiore a quella della manodopera femminile occupata con riguardo alle mansioni prese in considerazioni.
I fatti
Una lavoratrice, ritenendo il suo licenziamento discriminatorio, adiva l’autorità giudiziaria al fine di ottenere la declaratoria d’illegittimità dello stesso per violazione della percentuale di manodopera femminile prevista dall’art. 5, comma 2, della L. 223/1991. Detta disposizione statuisce che “l’impresa non può (…) licenziare una percentuale di manodopera femminile superiore alla percentuale di manodopera femminile occupata con riguardo alle mansioni prese in considerazione“.
Entrando nel merito della vicenda, nel reparto interessato dalla procedura collettiva operavano sei uomini e tre donne; di queste ultime, venivano licenziate due donne (tra cui la ricorrente) a fronte del licenziamento di un’unica risorsa maschile. Pertanto, essendo la percentuale complessiva di manodopera femminile occupata pari al 33,33% e, conseguentemente, la percentuale licenziata pari al 66,66%, la procedura collettiva così posta comportava, a parere della lavoratrice, una violazione del limite percentuale previsto dalla richiamata disposizione normativa.
La Corte di Cassazione, confermando la decisione di merito, ha respinto il ricorso promosso dalla società cogliendo, in tal modo, l’occasione per chiarire la portata interpretativa dell’art. 5, comma 2, L. 223/1991.
La decisione della Corte di Cassazione
Nell’ambito di una procedura collettiva per riduzione del personale, il tenore letterale della norma succitata impone che il confronto da operare in relazione al personale da espellere dal ciclo produttivo deve essere innanzitutto circoscritto all’ambito delle mansioni oggetto di riduzione. In sostanza il confronto deve riguardare l’ambito aziendale interessato dalla procedura, in modo tale da assicurare la permanenza, in proporzione, della quota di occupazione femminile sul totale degli occupati.
La Corte di Cassazione, in tal senso, precisa che l’art. 5, comma 2, della L. 223/1991 non prevede una comparazione fra il numero dei lavoratori dei due sessi prima e dopo la collocazione in mobilità; bensì essa impone di verificare la percentuale di donne lavoratrici così da procedere con il licenziamento di un numero di dipendenti nel cui ambito la componente femminile non deve superare la percentuale precedentemente determinata.
Ciò significa che, nel contesto aziendale interessato dalla procedura, i dipendenti da licenziare devono essere scelti in maniera da assicurare la permanenza, in proporzione, della quota di occupazione femminile sul totale degli impiegati.
Rebus sic stantibus al fine di evitare una discriminazione c.d. indiretta nelle procedure di licenziamento collettivo è necessario mantenere l’equilibrio esistente in termini di proporzione tra lavoratori e lavoratrici.
Il Tribunale di Bari, con la sentenza 2636 del 10 giugno 2019, ha ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa intimato ad una lavoratrice per aver inviato tramite il suo profilo Facebook – installato indebitamente sul dispositivo aziendale – messaggi che rivelavano segreti aziendali ad imprese concorrenti.
I fatti di causa
Una lavoratrice, con mansioni di segretaria commerciale ed inquadrata nel VI livello impiegatizio ai sensi del Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro del Terziario, veniva licenziata dalla società, sua datrice di lavoro, per giustificato motivo oggettivo. A seguito dell’impugnazione giudiziale del recesso da parte della lavoratrice, la società revocava il provvedimento espulsivo.
Dopodiché, la società azionava nei confronti della lavoratrice un procedimento disciplinare per:
Di tali informazioni la società ne era venuta a conoscenza proprio perché il telefono, durante il periodo di assenza della lavoratrice per malattia, era rimasto in azienda ed i messaggi in arrivo erano stati controllati dal legale rappresentante.
La lavoratrice, nel rendere le sue giustificazioni, contestava la genericità degli addebiti, dichiarandosi ad essi del tutto estranei. La società concludeva il procedimento intimandole un licenziamento per giusta causa.
La lavoratrice nell’impugnare il recesso eccepiva la sua nullità, poiché intimato in seguito al recesso per giustificato motivo oggettivo, ossia quando si era già verificata la causa estintiva del rapporto di lavoro.
Sul presupposto dell’insussistenza del fatto materiale posto a base del licenziamento, della mancanza di giusta causa e della violazione dei principi di specificità e tempestività delle contestazioni, la lavoratrice chiedeva che venisse accertata e dichiarata la sua illegittimità con condanna della società alla sua reintegrazione, al pagamento, a titolo risarcitorio, di una somma pari a 24 mensilità della retribuzione globale di fatto nonché al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali.
Costituendosi in giudizio, la società:
La decisione del Tribunale
Ad avviso del Tribunale nella fattispecie in esame la condotta posta in essere dalla lavoratrice è idonea a integrare la giusta causa di licenziamento.
Innanzitutto il Tribunale, conformandosi all’orientamento giurisprudenziale consolidatosi sul punto, ha osservato che ai fini dell’accertamento della giusta causa incombe sul datore di lavoro l’onere di provare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all’intensità dell’elemento intenzionale e, dall’altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta (cfr Cassazione civile, n.35/2011).
Ciò detto, a parere del Tribunale, dal punto di vista oggettivo il comportamento della dipendente costituisce un grave illecito disciplinare. In particolare, la lavoratrice, oltre ad aver installato indebitamente un suo profilo Facebook sul telefono aziendale, ha utilizzato tale dispositivo per intrattenere frequenti e numerose conversazioni private durante l’orario di lavoro svelando, tra l’altro, notizie aziendali riservate.
Tali circostanze, provate in giudizio tramite gli schreenshot delle diverse conversazioni, sono state ritenute di una gravità tale da ledere irrimediabilmente il rapporto di fiducia con l’azienda. In particolare, secondo il giudice, la condotta osservata ha integrato una violazione dei doveri di correttezza e buona fede nonché degli obblighi contrattualmente assunti di diligenza e di fedeltà.
In considerazione di quanto sopra esposto, il Tribunale ha rigettato l’impugnativa della lavoratrice dichiarando legittimo il licenziamento.
Nella Gazzetta Ufficiale del 17 giugno 2019 è stata pubblicata la Legge 55/2019 di conversione del D.L. 31/2019 (cd. Decreto “sblocca cantiere”), che ha novellato l’art. 2477 cod. civ., già modificato dall’art. 379 del Codice d’impresa (D.Lgs. 14/2019). Sono state, infatti, innalzate le soglie per l’obbligo di nomina dei sindaci e dei revisori nelle S.r.l.
In particolare, tale nomina è obbligatoria se la S.r.l.:
L’obbligo di nomina cessa qualora per tre esercizi consecutivi non è superato nessuno dei limiti.
Le società coinvolte saranno circa 80 mila a differenza delle circa 140 mila ricomprese nelle soglie originali.
Tutte le società che hanno nominato l’organo di controllo sulla base dei limiti precedenti potranno effettuare la revoca per giusta causa.