A partire dallo scorso 14 novembre 2018, lo scenario delle possibili conseguenze in caso di licenziamento illegittimo di un dipendente assunto nell’era del Jobs Act è radicalmente cambiato. In tale data, infatti, sono state pubblicate sulla Gazzetta Ufficiale le motivazioni della sentenza n. 194/2018 con cui la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della principale novità del cd. “contratto a tutele crescenti”, ossia la determinazione dell’indennizzo dovuto per le ipotesi di licenziamento illegittimo sulla base della sola anzianità di servizio. Inoltre, sempre secondo la Consulta, la formulazione del criterio di indennizzo introdotto dal Jobs Act, sarebbe stata anche in contrasto con il principio di ragionevolezza, in quanto l’indennità così determinata sarebbe potuta risultare insufficiente a garantire “adeguato ristoro del concreto pregiudizio subito” dal lavoratore licenziato.
Nonostante la sentenza sia stata pubblicata il 14 novembre sulla Gazzetta Ufficiale già solo con l’emanazione del comunicato stampa, intervenuta il precedente 26 settembre, le corti di merito hanno cominciato a disapplicare l’algoritmo introdotto dal Jobs Act nel 2015 e che stabiliva il riconoscimento di una indennità prestabilita da determinarsi in funzione dell’anzianità aziendale del lavoratore interessato. È il caso del Tribunale di Bari che con sentenza dell’11 ottobre 2018, ha condannato la società datrice di lavoro al pagamento di una indennità risarcitoria pari a n. 12 mesi, e ciò a fronte dei n.6 mesi dovuti sulla base di una norma di legge che all’epoca dei fatti era ancora vigente. Ma a prescindere da questi episodi, l’effetto reale della sentenza in esame è stato quello di determinare una sorta di “ritorno al passato”. Al di fuori dei casi di nullità di licenziamento, la discrezionalità dei Giudici sarà l’elemento determinante l’ammontare del danno dovuto ai lavoratori in ipotesi di licenziamento illegittimo, e ciò a prescindere dalla data di assunzione del dipendente. Appare evidente dunque che la sentenza della Corte segna un’inversione di rotta che allontana sempre di più dai rapporti di lavoro il principio di “certezza del diritto” e soprattutto introduce l’ennesimo regime di tutela che difficilmente potrà essere compreso dagli investitori stranieri.
Se infatti l’entrata in vigore del Jobs Act aveva segnato una svolta storica della legislazione giuslavoristica italiana, uscita indenne anche a seguito del Decreto Dignità – che si era limitato ad intervenire solo sui limiti di indennizzo senza intaccare il meccanismo di quantificazione dello stesso – la Corte Costituzionale ha fornito una forte battuta d’arresto, rimettendo nuovamente l’aleatorietà del rischio causa al centro delle vertenze di lavoro.
Ciò senza contare che, come si sta avendo modo di constatare, le novità della seconda metà del 2018 hanno già determinato un significativo aumento della propensione a ricorrere al giudice del lavoro per dirimere le controversie.
La terza sezione Lavoro del Tribunale Civile di Roma, con la sentenza 4354 datata 8 maggio 2019, ha affermato che i verbali di conciliazione sottoscritti dal lavoratore in sede sindacale, sono impugnabili entro il termine di cui all’art. 2113 cod. civ., laddove il CCNL non disciplini l’istituto della conciliazione e la sua procedura nonché se il rappresentante sindacale non fornisce effettiva assistenza.
I fatti
Una dipendente di azienda operante nel settore metalmeccanico, formalmente assunta a decorrere dal 21 aprile 2015 e licenziata il 16 maggio 2016, impugnava innanzi al Tribunale di Roma il verbale di conciliazione sottoscritto in sede sindacale in data 21 aprile 2015 con cui aveva rinunciato ad ogni pretesa connessa al rapporto di lavoro parasubordinato intercorso con il medesimo datore di lavoro a decorrere dal 21 gennaio 2003. In particolare, la ricorrente adduceva di (i) aver prestato la medesima attività lavorativa alle dipendenze dello stesso datore di lavoro a decorrere dal mese di gennaio 2003 in forza di una serie di contratti di collaborazione intercorsi senza soluzione di continuità; (ii) essere stata indotta dal datore di lavoro a sottoscrivere in data 21 aprile 2015 un verbale di conciliazione in sede sindacale con ogni rinuncia al pregresso rapporto quale unica possibilità per poter procedere alla sua assunzione; (iii) non aver mai incontrato il rappresentante sindacale prima dell’incontro e che quest’ultimo fosse stato mero spettatore dell’incontro. La lavoratrice concludeva, pertanto, per l’accertamento della natura subordinata del rapporto a decorrere dal 1° gennaio 2003 e per la condanna del datore di lavoro alla regolarizzazione contributiva nonché al pagamento delle relative differenze retributive. Si costituiva in giudizio il datore di lavoro, resistendo alle avverse domande e insistendo per la validità del verbale sottoscritto in sede sindacale e per la sua inoppugnabilità ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 2113 cod. civ.
Normativa di riferimento
L’istituto delle rinunce e delle transazioni in materia di rapporti di lavoro è disciplinato dall’art. 2113 cod. civ. che dopo aver sancito, al primo comma, l’invalidità delle rinunzie e delle transazioni, aventi ad oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi, stabilisce, al secondo comma, che “l‘impugnazione deve essere proposta, a pena di decadenza entro sei mesi dalla data di cessazione del rapporto o dalla data della rinunzia o della transazione, se queste sono intervenute dopo la cessazione medesima”. La medesima disposizione precisa inoltre, all’ultimo comma, che il regime di impugnabilità non si applica “alla conciliazione intervenuta ai sensi degli articoli 185, 410, 411, 412-ter e 412-quater del codice di procedura civile”.
La decisione della Corte di Cassazione
Il Tribunale adito, dopo aver esperito l’istruttoria, ha concluso per l’impugnabilità del verbale. In particolare, secondo il Tribunale, il verbale era stato sottoscritto in una sede diversa da quelle elencate dall’ultimo comma dell’art. 2113 cod. civ. da intendersi tassative.
Secondo la ricostruzione offerta dal Giudice, le conciliazioni inoppugnabili sono da considerarsi solo ed esclusivamente quelle sottoscritte innanzi la commissione di conciliazione istituita: (i) presso la ITL territorialmente competente oppure (ii) in conformità alle disposizioni del CCNL applicabile al rapporto dedotto in giudizio.
Nel caso posto al vaglio della corte di merito, il CCNL non disciplinava l’istituto della conciliazione e il verbale era stato sottoscritto presso la sede aziendale innanzi ad un rappresentate sindacale. Il verbale così sottoscritto rientrava nel regime di impugnabilità di cui al secondo comma dell’art. 2113 cod. civ.
Inoltre, dall’istruttoria esperita, a dire del Tribunale, era emerso che il rappresentante sindacale non aveva prestato alcuna assistenza effettiva alla lavoratrice, essendosi limitato a presenziare e a ricordare che il verbale sarebbe divenuto inoppugnabile. Quanto precede, non era sufficiente a garantire alla lavoratrice la piena consapevolezza del contenuto e degli effetti dell’accordo che era chiamata a sottoscrivere.
Concludeva dunque per l’accoglimento del ricorso.
Conclusioni
Con la sentenza in commento, il Tribunale adito, in parte, ha fornito un’interpretazione restrittiva dell’art. 2113 cod. civ. e, in parte, ha confermato un orientamento consolidato giurisprudenziale.
Nella specie, l’interpretazione restrittiva dell’art. 2113 cod. civ. è ravvisabile nella parte in cui si afferma che le conciliazioni sottoscritte in sede sindacale non rientrino nel disposto di cui all’ultimo comma della disposizione normativa in commento se non effettuate ai sensi dell’art. 412 ter cod. proc. civ.. In realtà, quest’ultima disposizione sembrerebbe ritenersi di “chiusura” e non invece come elenco tassativo delle sedi di conciliazione.
La disposizione è, infatti, rubricata come “Altre modalità di conciliazione e arbitrato previste dalla contrattazione collettiva” e prevede che “La conciliazione e l’arbitrato, nelle materie di cui all’articolo 409, possono essere svolti altresì presso le sedi e con le modalità previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative”. A ciò si aggiunga che lo stesso articolo 2113 cod. civ. richiama l’art. 411 cod. proc. civ. che fa espresso riferimento al terzo comma alla sede sindacale come luogo ove esperire la conciliazione.
Il principio, invece, secondo cui in mancanza di effettiva assistenza sindacale il verbale resta impugnabile, è un principio diverse volte rimarcato dalla giurisprudenza sia di merito che di legittimità. Da ultimo la stessa Corte di Cassazione, con la sentenza n. 9006 del 1° aprile 2019, ha ribadito che le rinunce e le transazioni aventi ad oggetto diritti previsti da disposizioni inderogabili di legge o di contratti collettivi, contenute in verbali di conciliazione conclusi in sede sindacale, non sono impugnabili dal lavoratore. Ciò, purché l’assistenza resa dai rappresentanti sindacali sia stata effettiva, così da porre il lavoratore in condizione di sapere a quale diritto rinuncia e in quale misura.
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Il Tribunale di Roma, Sez. Lavoro, con sentenza del 6 maggio 2019, è tornato a parlare dei contratti di collaborazione etero-organizzati, sviluppando ulteriormente l’indirizzo giurisprudenziale sorto in merito all’art. 2 del D.Lgs. 81/2015 in occasione del cosiddetto “caso Foodora”.
I Fatti
La controversia in esame aveva ad oggetto i rapporti di collaborazione intercorsi tra una società che eroga servizi di call center e i suoi collaboratori i quali, in via stragiudiziale, avevano impugnato i relativi contratti sostenendo che gli stessi fossero in realtà riconducibili ad un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
A fronte delle predette impugnazioni, la società datrice di lavoro aveva proposto, in via preventiva, ricorso dinanzi al Tribunale di Roma per accertare la genuinità dei contratti in questione. I collaboratori si costituivano in giudizio chiedendo, in via principale, l’accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro intercorso con la società e, in via subordinata, l’applicazione dell’art. 2 D.Lgs. 81/2015.
Nella specie, l’attività dei collaboratori consisteva nella gestione di disservizi tecnici eventualmente riscontrati dagli utenti sulle loro linee telefoniche fisse, mobili e/o sul modem. Nell’ambito della predetta attività, gli operatori erano liberi di valutare quando rendere la prestazione senza vincolo di orario, comunicando la propria disponibilità. Laddove non fossero stati disponibili, non erano tenuti a giustificare la loro assenza e non erano soggetti ad alcuna sanzione disciplinare. Al contempo, tuttavia, l’azienda, attraverso i propri team leader, dava precise direttive sulla durata delle telefonate, sulle modalità di svolgimento delle stesse etc.
Il giudice di merito investito della causa, esclusa la natura subordinata delle predette collaborazioni, si è soffermato sulla possibilità che i rapporti de quo rientrassero all’interno dei contratti di collaborazione etero-organizzati (co.co.org.), ossia un tertium genus tra il rapporto di lavoro subordinato ex art. 2094 cod. civ. e la collaborazione coordinata e continuativa (co.co.co.) prevista dall’art. 409 n.3 cod. proc. civ.
L’art. 2, comma 1, D.Lgs. 81/2015
L’art. 2, comma 1, D.Lgs. 81/2015, individua tre elementi che devono sussistere contemporaneamente perché ai rapporti di collaborazione si applichi la disciplina del rapporto di lavoro subordinato.
Innanzitutto, le prestazioni di lavoro devono avere carattere “esclusivamente personale”, implicante l’impossibilità di delegare ad un altro soggetto sia di farsi aiutare da lavoratori assunti e retribuiti direttamente dal lavoratore. Inoltre, le collaborazioni devono essere “continuative”. La continuità deve intendersi sia come “non occasionalità” sia come svolgimento di attività che vengono (anche se intervallate) reiterate nel tempo al fine di soddisfare i bisogni delle parti (sul punto sentenza della Corte d’Appello di Torino 26/2019). Infine, i rapporti di collaborazione si devono concretare in prestazioni di lavoro “le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”, integrando in tal modo l’elemento della c.d. “etero-organizzazione”. Elemento questo più invasivo rispetto al semplice “coordinamento” tipico delle co.co.co. ma meno invasivo rispetto all’“etero-direzione” propria del rapporto di lavoro subordinato.
La decisione del Tribunale
Il Tribunale ha affermato che, nel caso in esame, i rapporti di collaborazione intercorsi tra le parti presentavano tutti e tre gli elementi sopra elencati e che, pertanto, rientravano all’interno della fattispecie prevista dall’art. 2, comma 1, D.Lgs. 81/2015.
Tuttavia, secondo il Giudice di merito, ad essi non era applicabile la disciplina del rapporto di lavoro subordinato per effetto dell’ipotesi derogatoria di cui all’art. 2, comma 2, D.Lgs. 81/2015.
Ciò in quanto la predetta disposizione prevede che quanto disposto dal comma 1 non trova applicazione, tra le altre ipotesi, con riferimento “alle collaborazioni per le quali gli accordi collettivi nazionali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale prevedono discipline specifiche riguardanti il trattamento economico e normativo, in ragione delle particolari esigenze produttive ed organizzative del relativo settore”.
Infatti, ad avviso del Tribunale, nel caso in esame sussisteva tale ipotesi derogatoria, dal momento che le OO.SS. avevano sottoscritto un accordo collettivo che regolava in maniera specifica il trattamento economico e normativo dei collaboratori. Dunque, in presenza di tale accordo non potevano trovare applicazione le tutele proprie del lavoro subordinato, avendo le parti sociali già definito un complesso di regole per i collaboratori parasubordinati.
In altre parole, stando alla decisione in esame, nell’ipotesi in cui vi siano degli accordi collettivi che prevedono una disciplina specifica per le co.co.org., le stesse non modificano in senso espansivo l’area della subordinazione, ma restano nell’ambito di applicazione del lavoro parasubordinato.
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Anche per il Tribunale di Milano i food-rider sono lavoratori autonomi
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 12174 datata 8 maggio 2019, si è pronunciata sull’art. 3, comma 2, del D.Lgs. 23/2015 affermando che “l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, comprende non soltanto i casi in cui il fatto non si sia verificato nella sua materialità, ma anche tutte le ipotesi in cui il fatto, materialmente accaduto, non abbia rilievo disciplinare”.
I fatti
Il Tribunale di Genova, adito da una lavoratrice licenziata per aver abbandonato il proprio posto di lavoro durante l’orario di lavoro, dichiarava illegittimo il licenziamento disciplinare intimato ed estinto il rapporto di lavoro dalla data del licenziamento stesso, condannando la società datrice di lavoro (contumace) al pagamento di una indennità risarcitoria pari a 4 mensilità, oltre le spese di lite.
La lavoratrice ricorreva in appello avverso la pronuncia di primo grado per vedersi riconoscere la tutela reintegratoria prevista dall’art. 3, comma 2, del D.Lgs. 23/2015 per insussistenza del fatto materiale contestato.
La Corte distrettuale, nel respingere l’eccezione formulata dalla lavoratrice, osservava che la condotta addebitatale non era stata dalla medesima negata nella sua realtà storica piuttosto non poteva ritenersi, per le circostanze in cui si era verificata, di gravità tale da giustificare il provvedimento espulsivo.
Pertanto, ad avviso della Corte d’Appello, correttamente il Tribunale aveva riconosciuto la tutela risarcitoria di cui all’art. 3, comma 1, del D.Lgs 23/2015, quantificata in 4 mensilità.
Avverso la sentenza di secondo grado la lavoratrice ricorreva in cassazione, affidandosi a due motivi.
La normativa applicabile
La fattispecie in esame rientra nell’ambito di disciplina del D.Lgs. 23/2015, emanato in attuazione della L. 183/2014 con cui si delegava, tra le altre, il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi “allo scopo di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione, nonché di riordinare i contratti di lavoro vigenti per renderli maggiormente coerente con le attuali esigenze del contesto occupazione e produttivo e di rendere più efficiente l’attività ispettiva”.
Tra i principi ed i criteri direttivi, cui il Governo doveva attenersi nell’esercizio della delega, la L. 183/2014 aveva posto anche “la previsione per le nuove assunzioni del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti”, rispetto al quale la possibilità di reintegrazione nel posto di lavoro doveva essere limitata ai licenziamenti nulli e discriminatori ed a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato.
In esecuzione di tali principi e criteri è stato emanato il D.Lgs. 23/2015 che ha previsto per i lavoratori, assunti dopo il 7 marzo 2015, (data di entrata in vigore del Decreto) e per specifiche categorie di lavoratori che, benché assunti prima di tale data, sono destinatari dello stesso, la tutela reintegratoria in ipotesi residuali. Ciò senza modificare le nozioni legali di “giusta causa” e “giustificato” di recesso datoriale vigenti.
In particolare, il comma 1 del D.Lgs. 23/2015 dispone che “nei casi in cui risulta accertato che non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità (…)”.
Il comma 2 del medesimo articolo prevede poi che “esclusivamente nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria (…)”.
La decisione della Corte di Cassazione
La Corte di Cassazione sostiene che l’articolazione delle tutele di cui al D.Lgs. 23/2015 richiama quella già intrapresa dalla Legge 92/2012 (cd. Legge Fornero), anche nella sua logica di ritenere la reintegrazione residuale rispetto alla tutela indennitaria.
Sempre ad avviso della Corte di Cassazione, le espressioni utilizzate dal D.Lgs. 23/2015 (“fatto materiale contestato”) non possono che riferirsi alla stessa nozione di “fatto contestato” così come elaborata dalla giurisprudenza di legittimità in relazione al comma 4 dell’art. 18 della L. 300/1970.
Al fatto accaduto ma disciplinarmente del tutto irrilevante non può riservarsi un trattamento sanzionatorio diverso da quello previsto per le ipotesi in cui il fatto non sia stato commesso. Ciò in quanto il licenziamento necessita di giustificazione ed è illegittimo se non risulta appunto sorretto da un “giustificato motivo” o da una “giusta causa”.
A suffragio di tale assunto, secondo la Corte di Cassazione, vi è la lettura costituzionalmente orientata della norma, dovendosi affermare che “qualsivoglia giudizio di responsabilità, in qualunque campo del diritto punitivo venga espresso, richiede per il fatto materiale ascritto, dal punto di vista soggettivo, la riferibilità dello stesso all’agente e, da un punto di vista oggettivo, la sua riconducibilità nell’ambito delle azioni giuridicamente apprezzabili come fonte di responsabilità”.
A rafforzare tale conclusione vi è la considerazione che l’art. 3 del D.Lgs. 23/2015, al pari dell’art. 18, comma 4, L. 300/1970, fa riferimento alla contestazione e, pertanto, il “fatto materiale contestato” è il fatto non solo materialmente integrato ma anche di rilievo disciplinare.
E la diversa soluzione lessicale adottata dal legislatore del 2015 si spiega, secondo la Cassazione, con “l’esigenza di dissipare dubbi interpretativi che all’epoca erano ben presenti nel dibattito giurisprudenziale e dottrinale a proposito del comma 4 dell’art. 18 novellato”.
La Corte ha così cassato la sentenza di secondo grado, rinviando la causa al giudice di merito perché accertasse se il fatto, pur materialmente accaduto, avesse rilevanza disciplinare.
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Licenziamento illegittimo: l’indennità risarcitoria dopo la decisione della Consulta
La Corte di Cassazione, con ordinanza 11538 del 2 maggio 2019, ha affermato che il datore di lavoro può revocare unilateralmente l’auto assegnata al dipendente a titolo oneroso, in qualsiasi momento, senza preavviso e senza diritto per il dipendente stesso ad alcun indennizzo o compenso sostitutivo.
I fatti
Un dipendente adiva il Giudice del Lavoro affinché condannasse il suo datore di lavoro a riconsegnargli l’auto aziendale, assegnatagli qualche anno prima, assumendo che la stessa gli era stata concessa “ad uso promiscuo”, quale fringe benefit di natura retributiva.
Avverso la sentenza con cui il Tribunale aveva respinto la sua domanda, il dipendente proponeva appello. La Corte distrettuale, nel confermare la decisione di primo grado, osservava che nel caso di specie l’assegnazione dell’auto – stando a quanto emerso dalla relativa comunicazione sottoscritta dal lavoratore per accettazione – era avvenuta secondo le modalità stabilite nel Regolamento aziendale.
Sul punto la Corte d’Appello evidenziava che ai sensi dell’art. 1 del predetto Regolamento l’auto era da intendersi disposta ad esclusivo interesse dell’azienda, così da poter essere revocata (i) in qualsiasi momento e senza preavviso, (ii) senza diritto per il dipendente ad alcun indennizzo o compenso sostitutivo e (iii) con addebito in busta paga, al 30 giugno e al 31 dicembre di ogni anno, del costo relativo all’uso personale dell’autoveicolo.
Inoltre, la Corte d’Appello osservava che l’uso così regolamentato dell’autovettura aziendale, poiché rispondente all’interesse della società datrice di lavoro e oneroso per il dipendente, non era tale da integrare un compenso in natura che potesse trovare la sua causa nel sinallagma contrattuale; né d’altra parte poteva ritenersi che l’uso fosse stato concesso senza oneri per il dipendente sull’assunto che, dal 2005, nelle buste paghe non risultava effettuata la trattenuta relativa all’utilizzo dell’autovettura. A parere della Corte distrettuale quest’ultimo era un dato da solo insufficiente a dimostrare, in maniera univoca e certa, la comune volontà delle parti di mutare il titolo del godimento come originariamente pattuito in conformità al Regolamento aziendale.
Il lavoratore soccombente ricorreva in cassazione avverso la sentenza della Corte d’Appello, a cui resisteva la società datrice di lavoro con controricorso.
La decisione della Corte di Cassazione
La Corte di Cassazione investita della causa ha dichiarato inammissibile il ricorso presentato dal dipendente, confermando così la decisione dei giudici di merito.
In particolare, secondo la Corte di Cassazione, dall’accertamento di fatto compiuto nella fase di merito (e non oggetto di specifica censura) circa l’onerosità dell’uso dell’autovettura aziendale deriva che la concessione della stessa può essere revocata unilateralmente dal datore di lavoro, senza preavviso e senza diritto per il dipendente ad alcun indennizzo.