Nell’ottica di garantire un adeguato sostegno alle cure parentali, attraverso misure finalizzate a favorire le opportunità di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, l’art. 24 del D.Lgs. 151/2015 regolamenta l’istituto delle ferie/riposi solidali. In particolare, viene prevista la possibilità per tutti i lavoratori di cedere a titolo gratuito ai propri colleghi i riposi e le ferie maturati per consentire loro di assistere i figli minori che necessitano di cure costanti per particolari condizioni di salute. Oggetto di cessione possono essere (i) i periodi di ferie annuali retribuite eccedenti le 4 settimane nonché (ii) le ore eccedenti il necessario riposo giornaliero di “undici ore (…) ogni 24 ore” e quelle eccedenti le “ventiquattro ore consecutive, di regola in coincidenza con la domenica, da cumulare con le ore di riposo giornaliero” di cui al D.Lgs. 66/2003. Le relative misure, condizioni e modalità di cessione sono di norma stabilite dai contratti collettivi stipulati dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, nel rispetto comunque di quanto previsto in materia di ferie e riposi dal summenzionato D.Lgs. 66/2003. In ogni caso tali sistemi solidaristici, data la loro natura e tenuto conto della definizione fornita dall’art. 51 del D.Lgs. 81/2015 di “contratti collettivi”, possono essere istituiti anche mediante accordi a livello aziendale. Ciò, a condizione che i predetti accordi apportino condizioni migliorative o tendano ad ampliare il campo di applicazione dell’art. 24 del D.Lgs. 151/2015, anche relativamente alle condizioni dei lavoratori che dovessero beneficiare della cessione delle ferie ovvero dei riposi da parte dei colleghi.
Il Consiglio nazionale dell’ordine dei consulenti del lavoro ha presentato istanza di interpello al Ministero del Lavoro per conoscere il suo parere in merito alla configurabilità del silenzio assenso con riferimento alla richiesta di autorizzazione all’installazione di impianti audiovisivi e di strumenti ex art. 4 della legge 300/1970. Ciò in considerazione delle disposizioni di cui alla Legge 241/1990 secondo le quali il silenzio dell’amministrazione competente equivale ad accoglimento della domanda.
In particolare, è stato chiesto al Ministero se il silenzio dell’organo amministrativo adito, in relazione all’istanza di autorizzazione, possa essere considerato assenso tacito ad essa, in virtù del quale l’impresa possa procedere all’installazione degli impianti/strumenti richiesti.
La conclusione del Ministero
L’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori è volto a contemperare le esigenze datoriali con la tutela della dignità e della riservatezza del lavoratore sul luogo di lavoro. Nello specifico “si vuole evitare che l’attività lavorativa risulti impropriamente e ingiustificatamente caratterizzata da un controllo continuo e anelastico, tale da eliminare ogni profilo di autonomia e riservatezza nello svolgimento della prestazione lavorativa”.
La disposizione in esame affida, in primis, ad un accordo tra il datore e le rappresentanze sindacali la possibilità di installazione di impianti/strumenti che consentono un controllo a distanza dell’attività lavorativa. In difetto di accordo, l’installazione è subordinata all’ottenimento dell’autorizzazione da parte dell’Ispettorato del Lavoro.
Anche il Garante per la protezione dei dati personali è intervenuto più volte a regolamentare tale fattispecie, in considerazione della stretta interazione che lega l’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori alla normativa in materia di privacy, spesso richiamata nei provvedimenti autorizzatori.
Pertanto, secondo il Ministero, la formulazione dell’art. 4, primo comma, della L. 300/1970 “non consente la possibilità di installazione ed utilizzo di impianti di controllo in assenza di un atto espresso di autorizzazione, sia esso di carattere negoziale (accordo sindacale) o ammnistrativo (il provvedimento)”.
Secondo il Ministero questa interpretazione è in linea con la giurisprudenza secondo la quale “la diseguaglianza di fatto e quindi l’indiscutibile e maggiore forza economico-sociale dell’imprenditore, rispetto a quella del lavoratore, dà conto della ragione per la quale la procedura codeterminativa sia da ritenersi inderogabile, potendo alternativamente essere sostituita dall’autorizzazione della direzione territoriale del lavoro“ (cfr. Cass. pen. n. 22148/2017), in continuità con un orientamento interpretativo consolidato in materia (cfr. Cass. pen. n. 51897/2016; Cass. civ. n. 1490/1986)”.
In considerazione di quanto esposto, ai procedimenti attivabili mediante presentazione dell’istanza ex art. 4, comma 1, della L. 300/1970 non è configurabile l’istituto del silenzio assenso. È necessaria l’emanazione di un provvedimento espresso di accoglimento o rigetto della relativa istanza.
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La Suprema Corte, il 15 maggio 2019 con ordinanza n. 13025 , è tornata ad occuparsi della giusta portata da riconoscere alla seconda fase (c.d. fase di opposizione) del giudizio di primo grado instaurato ai sensi dell’art. 1 co. 51, L. n 92/2012 (“Rito Fornero”).
La Corte di Cassazione ha osservato che la fase di opposizione deve essere intesa non come una mera revisio prioris instantie della prima fase (cd. fase sommaria) ma come una vera e propria prosecuzione del giudizio di primo grado che si ri-espande acquisendo i caratteri del procedimento ordinario del lavoro.
Sul punto la stessa ha, infatti, evidenziato che “in caso di soccombenza reciproca nella fase sommaria e di opposizione di una sola delle parti, l’altra parte può riproporre nella fase a cognizione piena, con la memoria difensiva, le domande e le eccezioni non accolte, anche dopo la scadenza del termine pe presentare autonoma opposizione e senza necessità di formulare una domanda riconvenzionale con relativa istanza di fissazione di una nuova udienza ai sensi dell’art. 418 c.p.c., atteso che l’opposizione non ha natura impugnatoria, ma produce la ri-espansione del giudizio, chiamando il giudice di primo grado ad esaminare l’oggetto dell’originaria impugnativa di licenziamento nella pienezza della cognizione integrale”.
Entrando nel merito dei fatti di causa, un lavoratore aveva adito il Tribunale di Caltanissetta affinché venisse dichiarato illegittimo/nullo/invalido il licenziamento disciplinare intimatogli dalla Banca sua ex datrice di lavoro.
Sia nella prima fase del procedimento Fornero sia in quella dell’opposizione, il Tribunale di Caltanissetta aveva confermato l’illegittimità del licenziamento de quo, riconoscendo al lavoratore una tutela esclusivamente indennitaria. Il datore di lavoro veniva, infatti, condannato al pagamento in suo favore di un’indennità risarcitoria nella misura di 12 mensilità.
In fase di opposizione, lo stesso Tribunale aveva anche ritenuto il datore di lavoro decaduto dalla possibilità di proporre opposizione incidentale, stante l’omessa impugnazione nel termine di 30 giorni dalla pubblicazione del provvedimento giudiziale. Il datore di lavoro si era, invece, costituito 10 giorni prima dell’udienza prefissata per il giudizio di opposizione.
Avverso la decisione del Giudice di prime cure, proponeva appello (i) in via principale il lavoratore reclamando, tra l’altro, una maggiore tutela – quella reintegrativa o quella risarcitoria ma nella misura di 24 mensilità – e (ii) in via incidentale il datore di lavoro. Nello specifico, quest’ultimo censurava la ritenuta decadenza dall’opposizione incidentale, ribadendo le medesime doglianze formulate con l’opposizione incidentale già ritenuta inammissibile in primo grado.
La Corte territorialmente competente nel respingere i motivi di reclamo proposti dalle parti, si soffermava in particolar modo e prioritariamente sul reclamo incidentale del datore di lavoro.
Secondo la Corte distrettuale era corretta la decisione di inammissibilità dell’opposizione incidentale (con conseguente incontrovertibilità della statuizione sulla illegittimità del licenziamento) espressa dal Tribunale. Ciò in quanto non può essere applicata, nell’ambito del giudizio di opposizione del c.d. ‘rito Fornero’, la disciplina dell’impugnazione tardiva di cui all’art. 334 c.p.c.
Avverso la sentenza della Corte d’Appello, ricorreva in cassazione il lavoratore con due motivi e il datore di lavoro, in via incidentale, con quattro motivi. Ai nostri fini, rileva soffermarsi sul primo mezzo di gravame proposto dal datore di lavoro.
Nell specifico il datore di lavoro denunciava “la violazione e falsa applicazione dell’art. 1, co. 51, L. n. 92/2012 nella parte in cui la Corte d’Appello ha confermato la tardività, già dichiarata in prime cure, della richiesta di riforma parziale dell’ordinanza ex art. 1, co. 49, L. n. 92/2012 formulata” dallo stesso in sede di costituzione nel giudizio radicato per effetto dell’impugnazione dell’ordinanza della prima fase del Rito Fornero proposta dal lavoratore.
Questo motivo veniva ritenuto dalla Suprema Corte pregiudiziale e assorbente investendo la questione della legittimità del licenziamento per giusta causa e, pertanto, meritevole di essere trattato per primo.
I Giudici della Suprema Corte, nell’accogliere il motivo in questione, riprendevano i dettami della pronuncia delle Sezioni unite civili n. 19674 del 2014 secondo cui il carattere peculiare del rito Fornero – finalizzato all’accelerazione dei tempi del processo relativo all’applicazione delle tutele modellate dal novellato art. 18 L. n. 300/70 – risiede nella scissione del giudizio di primo grado in due fasi: una a cognizione sommaria e l’altra, definita di opposizione, a cognizione piena, con accesso per le parti a tutti gli atti di istruzione ammissibili e rilevanti per la dimensione ordinaria.
Cosa accade quindi con la seconda fase di opposizione? Allorquando una delle parti propone “opposizione con ricorso contenente i requisiti di cui all’articolo 414 del codice di procedura civile, da depositare innanzi al tribunale che ha emesso il provvedimento opposto, a pena di decadenza, entro trenta giorni dalla notificazione dello stesso, o dalla comunicazione se anteriore” (comma 51), viene meno l’attitudine dell’ordinanza emessa in fase sommaria ad acquisire la stabilità della cosa giudicata (cfr. Cass. SS.UU. n. 17443 del 2014; Cass. SS.UU. n. 19674/2014 cit.), che consegue solo al caso in cui la stessa non venga opposta da alcuno nel termine di decadenza previsto (cfr. Cass. n, 21720 del 2018, in motivazione)”. Tant’è che “in seguito all’opposizione, l’ordinanza è integralmente sostituita dalla sentenza pronunciata all’esito della seconda fase che “provvede … all’accoglimento o al rigetto della domanda” (comma 57 che richiama la stessa formula del comma 49) e non già alla semplice revoca o conferma dell’ordinanza emessa”.
In altri termini, secondo gli Ermellini, l’espresso richiamo
– all’art. 414 c.p.c., quanto ai requisiti del ricorso in opposizione,
– all’art. 416 c.p.c., quanto alla memoria di costituzione, e
– all’art. 421 c.p.c., quanto ai poteri d’ufficio del giudice
non può non implicare che l’opposizione debba essere modellata sulla disciplina dell’ordinario giudizio di primo grado di cui agli artt. 413 e ss. c.p.c., alla quale deve farsi riferimento per integrare quella speciale prevista dai commi 51-57 dell’art. 1 della L. n. 92/2012.
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L’approccio sostenibile agli investimenti rappresenta sempre più il modello di riferimento per gli imprenditori virtuosi, i quali pongono i temi della sostenibilità alla base delle loro scelte imprenditoriali. Anche, e sempre di più, in relazione alla gestione del proprio personale. Un segnale in questa direzione è arrivato anche dall’Excellence & Innovation HR Award, il premio alle migliori pratiche e progetti nella gestione responsabile delle risorse umane, lanciato nel 2018 dallo studio De Luca & Partners. Infatti, almeno il 75% dei progetti candidati ha connesso le iniziative di valorizzazione del capitale umano ad attività o policy di corporate social responsibility.
Del resto, lo stesso acronimo ESG (environmental, social e governance), include principi quali la diversità e l’integrazione tra le risorse umane, con tutto ciò che ne consegue in termine di tutela di diritti umani (fattore “S”). Mentre il fattore “G” tiene conto di variabili quali le relazioni sussistenti tra i dipendenti, i sistemi di remunerazione e le modalità con cui la struttura organizzativa della società viene condotta.
Perciò, quando si parla di ESG non si può prescindere dal riferirsi alle politiche da implementare al fine di garantire una gestione equa e sustainability oriented delle risorse. È, infatti, importante progettare all’interno delle aziende processi/pratiche che mirino a gestire e valorizzare il capitale umano, sostenendo e promuovendo il “benessere” di tutti coloro che vi lavorano al suo interno. La sostenibilità è un elemento costitutivo dell’organizzazione per affrontare le sfide del mercato ed attrarre talenti. Ed è qui che entra in gioco il ruolo dell’avvocato giuslavorista. Ciò in quanto l’avvocato giuslavorista può supportare la Direzione Risorse Umane nell’adottare un approccio di gestione del personale che migliori il clima in azienda, aumentando la sua soddisfazione. E ciò può essere fatto attraverso l’implementazione di un piano welfare che se ben strutturato consente ad una azienda (sia essa di piccole, medie e grandi dimensioni) di far crescere la propria produttività e la partecipazione ad essa dei dipendenti. Attraverso i piani di welfare possono, nello specifico, essere riconosciuti ai dipendenti elementi remunerativi complementari alla retribuzione cosiddetta “economica”, i quali consistono in beni o servizi assoggettati a regimi di imposizione retributiva e fiscale vantaggiosi, sia per il datore di lavoro che per il dipendente. Non si dimentichi, poi, l’adozione di politiche di lavoro agile le quali potrebbero certamente garantire (i) un miglior benessere dei dipendenti, (ii) la possibilità degli stessi di conciliare i tempi di vita con i tempi di lavoro e (iii) una maggiore sostenibilità per l’ambiente, in termini di riduzione di traffico e inquinamento, dati i minori spostamenti per raggiungere il luogo di lavoro. Ma anche un sistema di remunerazione strutturato secondo principi di equità, pari opportunità e meritocrazia è sostenibile. Il tutto, ovviamente, con un conseguente beneficio per le aziende, atteso che il benessere dei dipendenti si rifletterà inesorabilmente sulle performance degli stessi. ESG, allora, come punto di riferimento nonché punto di partenza per tutte quelle società e per tutti quegli imprenditori virtuosi che vorranno rendersi e mantenersi competitivi sul mercato.
Con ordinanza n. 10043 del 10 aprile 2019, la Corte di cassazione è tornata a pronunciarsi sui requisiti richiesti perché una serie di comportamenti posti in essere dal datore di lavoro possano integrare gli estremi del mobbing, nella specie denunciato da un dirigente che aveva dichiarato di essere stato vittima di una serie di comportamenti presentati come pregiudizievoli della sua posizione (nello specifico: immotivato cambio di stanza, tardivo o omesso riscontro alle sue richieste chiarimenti organizzativi, mancanza di direttive).
Nei giudizi di merito, il dirigente aveva visto prima accolte e, in sede di appello, respinte, le proprie domande di accertamento della sussistenza degli estremi del mobbing e il conseguente diritto al risarcimento per i danni non patrimoniali allegati.
La Corte d’appello aveva in particolare ritenuto non raggiunta la prova sulla sussistenza di un’univoca strategia mobbizzante ai danni del dirigente, con ciò respingendo la relativa richiesta risarcitoria. Nondimeno, la Corte d’appello aveva comunque riconosciuto il diritto del dirigente a vedersi risarcito il danno a titolo di responsabilità ex articolo 2087 del Codice civile, con riferimento ad un unico episodio nel quale il dirigente era stato destinatario di affermazioni ingiuriose da parte del direttore generale della società, potendo anche offrire in giudizio elementi inconfutabili circa l’ingiuria subita, un pregiudizio alla salute conseguitone, ed il nesso causale tra la condotta e il pregiudizio (confermato, peraltro, dalla Ctu medico legale acquisita agli atti del processo).
Avverso la sentenza di appello, il dirigente proponeva ricorso per cassazione, denunciando che i giudici territoriali avevano omesso di esaminare taluni fatti decisivi della controversia.
Respingendo il ricorso del dirigente, la Cassazione ha avuto modo di sottolineare che l’accertamento complessivo dei fatti era risultato chiaro e convincente, posto che la Corte d’appello aveva motivato la propria decisione in modo coerente ed esente da vizi logico argomentativi. Al riguardo, nessun rilievo riconosceva la Suprema Corte al fatto che i giudici territoriali non avessero considerato ai fini della qualificazione della fattispecie i denunciati «rapporti tesi e conflittuali fra le parti», in quanto inidonei a dimostrare un intento persecutorio nei confronti del dirigente.
Si segnala che il principio espresso dalla Cassazione si pone in parziale contrasto con altra recente pronuncia che aveva invece riconosciuto come le critiche provenienti dal datore di lavoro potessero ben qualificare gli estremi della condotta mobbizzante (Corte di Cassazione n. 23923/2009).
Ciò posto, dall’esame dell’orientamento generale e solitamente condiviso della Corte di cassazione può in ogni caso dirsi pacifico che l’accertamento del mobbing presuppone non tanto un singolo atto lesivo o di condotte multiple ma tra loro non correlate, bensì la reiterazione di una pluralità di atteggiamenti e fatti, anche se non connotati da rilevanza penale, convergenti sia nell’esprimere l’ostilità del soggetto attivo verso la vittima, sia nell’efficace capacità di mortificare e isolare il dipendente dall’ambiente di lavoro. Circostanze che, nel caso di specie, non erano state concretamente allegate e provate.
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