Martedì 26 novembre De Luca & Partners e HR Capital hanno organizzato un nuovo HR Breakfast.
Il moderatore Vittorio De Luca, Managing Partner di De Luca & Partners e i relatori Alessandro Ferrari, Senior Associate di De Luca & Partners e Roberta De Felice, Consulente del lavoro di HR Capital hanno fatto il punto sulla recente sentenza del Tribunale di Roma che per la prima volta in Italia ha affrontato il tema del corretto inquadramento giuridico dei c.d. “influencer“.
Secondo la pronuncia in commento, l”influencer che promuove in via stabile e continuativa i prodotti di un’azienda potrebbe dover essere inquadrato come agente di commercio.
La decisione citata determina conseguenze particolarmente significative per il preponente, sotto molteplici profili. Solo per citare i principali:
i) oneri contributivi verso Enasarco;
ii) indennità e diritti previsti dal codice civile (e.g.: indennità di cessazione del rapporto di agenzia);
iii) adempimenti;
iv) regolarizzazione di contratti in corso;
v) gestione delle interlocuzioni con l’Enasarco;
vi) assistenza in eventuali processi di accertamento ispettivo;
vii) patrocinio legale nelle cause promosse dagli influencer o instauratesi a seguito di processo ispettivo degli enti.
Se vuoi approfondire il tema puoi leggere l’intervista pubblicata su The Platform.
Il mondo del lavoro italiano, che in queste settimane ha nuovamente posto il tema al centro dei propri dibattiti, potrebbe interpretare questo quesito come una provocazione.
Nel nostro ordinamento, infatti, il lavoro agile è definito come una modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato da stabilirsi attraverso un accordo tra le parti. Ciò comporta che il lavoratore potrebbe anche farne richiesta ma spetta comunque al datore di lavoro la facoltà di scegliere, in primis, se introdurre o meno tale modalità di esecuzione delle mansioni lavorative all’interno della propria organizzazione. Scelta che il datore può assumere senza nemmeno dover fornire eventuali giustificazioni – la normativa vigente in Italia non prevede infatti che l’azienda debba esibire spiegazioni o motivazioni.
In una direzione differente sembra andare l’approccio che vorrebbe adottare il governo laburista del Regno Unito. Lo scorso 10 ottobre, infatti, è stato presentato ed illustrato al Parlamento il c.d.” Employment Rights Bill”, un disegno di legge che in ventotto punti si pone l’obiettivo di riformare i diritti dei lavoratori d’oltre manica.
Nell’ambito delle numerose riforme che la proposta vuole introdurre e che già hanno suscitato da un lato molta attesa e dall’altro le preoccupazioni delle aziende, l’”Employment Rights Bill” promuove il lavoro flessibile a tal punto che il “work from home” potrebbe diventare di default la regola per tutti i lavoratori – ovviamente, a condizione che le mansioni assegnate siano compatibili con tale modalità di esecuzione delle attività lavorative. Nello specifico, si prevede, da un lato, che i lavoratori dipendenti possano – sin dal primo giorno di lavoro – presentare richiesta di lavorare in modalità flessibile e, dall’altro, che il datore di lavoro abbia la possibilità di rifiutare una richiesta se però dimostra di avere una buona ragione per farlo.
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La Corte di cassazione, chiamata a pronunciarsi sulla possibilità di applicare la responsabilità solidale prevista dall’articolo 29 del Dlgs 276/2003 anche ai contratti diversi dall’appalto ex articolo
1655 del Codice civile, con la recente sentenza 26881 del 16 ottobre 2024, ha enunciato un importante principio di diritto che va ben oltre il tema della solidarietà, investendo l’intero impianto normativo
dell’interposizione fittizia di manodopera.
I giudici di legittimità, dopo aver ribadito la ratio della solidarietà di cui al citato articolo 29, ossia evitare il rischio che si verifichino pregiudizi a danno dei lavoratori impiegati in situazioni di decentramento produttivo, di fronte a un contratto atipico a causa mista utilizzato nella prassi della grande distribuzione, hanno precisato che a rilevare non è tanto l’esatta qualificazione del contratto, quanto «la necessità di verificare se vi sia stato un meccanismo di decentramento e di dissociazione fra la titolarità del contratto di lavoro e l’utilizzazione della prestazione lavorativa che possa giustificare una applicazione della
garanzia di cui all’articolo 29». A ben vedere, tuttavia, la portata della pronuncia sembra andare oltre il tema della mera solidarietà, in quanto, a prescindere dalla qualificazione del contratto, porta a concludere che il decentramento realizzato e la conseguente dissociazione fra la titolarità del rapporto di lavoro e l’utilizzazione della prestazione lavorativa sono tali da poter giustificare l’applicazione, non solo dell’articolo 29, ma dell’intero impianto normativo posto a tutela dei lavoratori illegittimamente
utilizzati. Se, come osservato dalla Corte, il tema d’indagine deve avere lo scopo di individuare su quale parte contrattuale ricada il «rischio di impresa», non può trascurarsi allora che debbano assumere rilievo anche gli altri criteri previsti dal primo comma dell’articolo 29 del Dlgs 276/2003 per la verifica della genuinità dell’appalto, quali:
I tre requisiti citati, infatti, rappresentano i caratteri distintivi dell’appalto rispetto alla somministrazione di lavoro. Sebbene la Cassazione, nella sentenza in commento, si sia concentrata sul requisito del rischio d’impresa, è di tutta evidenza che la verifica della genuinità del contratto deve riguardare anche l’organizzazione dei mezzi e delle persone. E ciò, a prescindere dalla qualificazione
giuridica del contratto che regola i rapporti tra i contraenti, in ogni situazione nella quale si realizzi la dissociazione tra datore e utilizzatore .
Beninteso, salvo che il somministratore non sia un’agenzia appositamente autorizzata dal
ministero del Lavoro.
Del resto, tale lettura non dovrebbe sorprendere se si considera che l’intero diritto del lavoro è generalmente caratterizzato dalla prevalenza della sostanza sulla forma.
Di conseguenza, l’eventuale decentramento produttivo in mancanza dei requisiti in parola rischia di essere non conforme alla legge e pertanto riqualificabile in una somministrazione irregolare o fraudolenta di manodopera.
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Con la sentenza n. 24473 del 12/09/2024, la Cassazione ha stabilito che l’astensione individuale dal lavoro non può essere qualificata come sciopero. La pronuncia è giunta a seguito del rigetto del ricorso presentato da alcuni lavoratori contro una sanzione disciplinare inflitta da una società autostradale a seguito di due giornate di assenza non giustificata. La Corte d’appello aveva dichiarato la legittimità della sanzione, affermando che l’assenza dei dipendenti non era stata accompagnata da una proclamazione sindacale, condizione necessaria affinché l’astensione potesse essere qualificata come sciopero. In particolare, la Corte di merito aveva evidenziato che, in mancanza di una comunicazione formale da parte di un sindacato che dichiarasse l’ora di inizio dello sciopero e in assenza di una deliberazione collettiva, il comportamento dei lavoratori era da considerarsi una scelta individuale.
I lavoratori hanno impugnato tale decisione, sostenendo che il diritto di sciopero potesse essere esercitato senza una proclamazione sindacale. Tuttavia, la Suprema Corte ha chiarito che, sebbene lo sciopero rappresenti un diritto individuale, è essenziale che sia collettivamente concordato in presenza di una situazione conflittuale implicante la tutela di un interesse collettivo. Conseguentemente, la Corte ha rigettato il ricorso e dichiarato legittima la sanzione
Con ordinanza 27610 del 24 ottobre 2024, la Corte di cassazione ha dichiarato legittimo il licenziamento per giusta causa di un dipendente, accusato di aver reiteratamente «abusato» delle pause lavorative trascorrendo tempi eccessivi in un bar con i colleghi di lavoro.
La vicenda giudiziale trae origine dal licenziamento per giusta causa irrogato al lavoratore a seguito di ripetute assenze ingiustificate. In particolare, attraverso l’intervento di un’agenzia investigativa, era stato documentato come, in tre occasioni, il lavoratore si fosse trattenuto – per mezz’ora e anche oltre – in conversazioni con colleghi nei pressi di un bar, approfittando delle pause previste durante l’orario lavorativo.
La Corte d’appello di Catanzaro, in riforma della pronuncia di primo grado – che, pur ritenendo sussistenti i fatti contestati, aveva considerato illegittimo il recesso per difetto di proporzionalità della sanzione, disponendo la tutela indennitaria – aveva affermato la legittimità del licenziamento, sottolineando che le prolungate assenze non rappresentavano semplici necessità fisiologiche, ma un uso improprio del tempo di lavoro. La Corte territoriale aveva sottolineato che le reiterate violazioni dei doveri di ufficio erano da considerarsi ancora più gravi considerato il ruolo apicale rivestito all’interno dell’azienda dal dipendente, il quale ricopriva funzioni di responsabilità e coordinamento di altri lavoratori nell’ambito di un servizio di particolare importanza quale quello della raccolta rifiuti, che poteva compromettere la percezione del cittadino nei confronti del servizio stesso. La Corte d’appello ha inoltre disposto che «i fatti avessero “rilievo penale” o comunque erano idonei “a raggirare il datore di lavoro” e a ledere non solo “il patrimonio aziendale, ma anche l’immagine dell’azienda all’esterno».
La Cassazione ha ribadito che il datore ha il diritto di tutelare la propria reputazione, sottolineando come l’immagine aziendale sia di fondamentale importanza, specialmente in settori di rilevanza pubblica, come quello della raccolta dei rifiuti, dove la percezione del cittadino può influenzare la fiducia e l’efficacia del servizio. La Corte di legittimità ha, inoltre, evidenziato che, sebbene non sia consentito servirsi di investigatori privati con il fine di effettuare un controllo indiscriminato sull’adempimento della prestazione lavorativa, il datore ha, comunque, la facoltà di servirsi di tali agenzie, laddove vi sia il sospetto o la mera ipotesi che siano in corso di esecuzione atti illeciti commessi dal lavoratore. La Cassazione, ha infine ricordato che la nozione di «patrimonio aziendale» è da intendersi nella sua accezione estesa, comprendendo non solo il complesso dei beni aziendali, ma anche l’immagine esterna.
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