Con la sentenza 470/2024, la Corte d’appello di Milano ha nuovamente affrontato la questione relativa alla possibilità di includere il ricavato ottenuto dalla vendita delle stock option nella retribuzione utile ai fini del calcolo del preavviso e delle indennità di fine rapporto. La Corte ha statuito che, poiché nel caso specifico, i proventi derivanti dalle stock option hanno natura continuativa e non occasionale, costituiscono parte integrante della retribuzione. La Corte di merito ha così ribaltato la decisione 246 del 7 maggio 2024, emessa dallo stesso Collegio, innescando un dibattito sul tema.
La vicenda giudiziaria trae origine dal ricorso di un dirigente licenziato per giusta causa. La controversia aveva riguardato, tra l’altro, l’inclusione nel computo della retribuzione degli importi derivanti dall’esercizio delle stock option che il dirigente sosteneva avessero natura retributiva in ragione della loro regolarità e non occasionalità, in quanto avevano cadenza predeterminata, rientrando in piani triennali o quadriennali. Il giudice di prima istanza aveva respinto quest’ultima tesi, estromettendo tali proventi dalla retribuzione, in ragione della sussistenza di un regolamento aziendale che li escludeva dal calcolo della retribuzione globale di fatto.
Tuttavia, la Corte d’Appello ha scelto di adottare una prospettiva differente, richiamando sia l’articolo 2099, comma 3, del Codice civile, il quale prevede che «il prestatore di lavoro può anche essere retribuito in tutto o in parte con partecipazione agli utili o ai prodotti, con provvigione o con prestazioni in natura», sia l’articolo 2120 del Codice civile, secondo cui, «salvo diversa previsione dei contratti collettivi» la retribuzione utile ai fini del calcolo del Tfr «comprende tutte le somme, compreso l’equivalente delle prestazioni in natura, corrisposte in dipendenza del rapporto di lavoro, a titolo non occasionale e con esclusione di quanto è corrisposto a titolo di rimborso spese».
La Corte meneghina ha dunque ritenuto che le stock option costituiscano una forma di retribuzione tramite partecipazione agli utili consentita dall’articolo 2099 del Codice civile, ricordando altresì che, in base all’articolo 51 del Tuir sono considerati redditi da lavoro dipendente «tutte le somme e i valori in genere, (…) anche se non provenienti direttamente dal datore”, come potrebbe essere il caso dell’erogazione effettuata da parte di un’altra società del gruppo.
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In caso di infortuni sul lavoro, la nomina di un preposto non è sufficiente per evitare la condanna del datore di lavoro. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sezione penale, sentenza 10 giugno 2024, n. 23049.
La Suprema Corte ha, infatti, chiarito che il datore di lavoro deve vigilare per prevenire l’instaurazione di prassi contrarie alla legge che possano mettere in pericolo i lavoratori. Pertanto, in caso di incidente o infortunio, l’ignoranza del datore di lavoro non vale ad escluderne la colpa per omessa vigilanza sul comportamento del preposto.
Nel caso sottoposto all’attenzione della Corte, un lavoratore riportava lesioni gravi e permanenti a seguito dell’utilizzo di reagenti chimici durante lo svolgimento di operazioni di pulizia di un macchinario. Nello svolgere tale attività emergeva che il lavoratore non era dotato di adeguati dispositivi di protezione e non aveva ricevuto la necessaria formazione.
Il Tribunale adito in primo grado condannava il datore di lavoro, riconoscendo l’esistenza del nesso causale tra la condotta colposa e l’evento delittuoso e sottolineando che l’evento lesivo si sarebbe potuto scongiurare designando come preposto un soggetto dotato di maggiore competenza.
La Corte d’Appello, riformando la sentenza di condanna di primo grado, da un lato assolveva il datore di lavoro osservando che il soggetto preposto era dotato di comprovata esperienza, e quindi idoneo alle mansioni ed al ruolo assegnatogli e, dall’altro, inquadrava come eccentrica ed imprevedibile la condotta del lavoratore.
La Corte di Cassazione, annullando la decisione della Corte d’Appello che non aveva tenuto conto del fatto che il lavoratore coinvolto non aveva ricevuto una adeguata formazione, rileva che, data la natura delle sue mansioni, non avrebbe comunque dovuto essere coinvolto in operazioni che prevedessero l’uso di sostanze chimiche.
La Suprema Corte, anche precisando che il datore di lavoro ai fini della sicurezza è tenuto a garantire la corretta formazione dei lavoratori indipendentemente dall’esperienza operativa che possano avere nel tempo acquisito, ha riconosciuto profili di responsabilità in capo al datore di lavoro per mancata vigilanza sull’operato del preposto.
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Con l’ordinanza n. 17450 del 25 giugno 2024, la Corte di Cassazione – nel confermare il proprio precedente orientamento – ha statuito che il caso di accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro solo formalmente autonomo non trova applicazione il regime indennitario tipico dei contratti a termine, bensì quello risarcitorio a decorrere dalla costituzione in mora.
Una giornalista, che aveva stipulato con la società plurimi contratti di lavoro autonomo a tempo determinato in un arco temporale di quasi 12 anni, ricorreva giudizialmente al fine di ottenere l’accertamento della sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, nonché la condanna del datore di lavoro all’integrale risarcimento del danno, pari alle retribuzioni maturate dalla costituzione in mora successiva alla scadenza dell’ultimo contratto di lavoro autonomo e fino all’effettiva riammissione in servizio.
La Corte d’Appello accoglieva parzialmente la predetta domanda, accertando, da un lato, la natura subordinata del rapporto di lavoro intercorso tra le parti, ma rigettando, dall’altro, la domanda risarcitoria nei termini richiesti dalla lavoratrice.
In merito a tale ultimo aspetto, la Corte d’Appello precisava che, anche con riferimento al contratto di lavoro a tempo determinato solo formalmente autonomo, trova applicazione il regime indennitario tipico dei contratti a termine, ovverosia l’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 e un massimo di 12 mensilità.
La Suprema Cassazione – adìta in via principale dalla lavoratrice nonché, in via incidentale, dalla società – ha rilevato preliminarmente che, in ipotesi di accertamento di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, non trova applicazione il regime indennitario relativo ai contratti a termine.
Secondo i Giudici di legittimità, infatti, la normativa relativa ai contratti a tempo determinato (recante la previsione di un importo variabile da 2,5 a 12 mensilità) trova applicazione in caso di declaratoria di illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro subordinato, ipotesi non sovrapponibile al caso di specie.
Secondo quanto statuito dagli Ermellini, in caso di riqualificazione del contratto di lavoro autonomo – che presuppone una approfondita indagine giudiziale condotta sulla base di indici ritenuti rivelatori di un determinato atteggiarsi dei diritti, degli obblighi e dei poteri delle parti – spetta al lavoratore il risarcimento integrale del danno, in misura pari alle retribuzioni maturate dalla costituzione in mora sino alla effettiva riammissione in servizio.
Alla luce di quanto sopra, la Suprema Corte ha accolto il motivo di ricorso proposto dal lavoratore, cassando con rinvio l’impugnata pronuncia.
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Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo è illegittimo se il datore di lavoro non dimostra di aver offerto al lavoratore posizioni di livello inferiore, anche a tempo determinato.
Il datore di lavoro, infatti, prima di procedere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, deve dimostrare di aver esplorato tutte le possibili soluzioni per ricollocare il lavoratore all’interno dell’azienda.
Ad affermare tale principio è stata la Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 18904 del 10 luglio 2024, con ciò rafforzando l’obbligo di repêchage per i datori di lavoro.
La Corte ha quindi concluso che il licenziamento è illegittimo quando esistono, al momento del recesso, delle posizioni di lavoro alternative, ancorché in mansioni inferiori oppure a tempo determinato, e non viene effettuata da parte del datore di lavoro alcuna offerta di lavoro per la ricollocazione in queste mansioni.
La Corte ha ribadito che l’onere della prova in merito all’impossibilità di ricollocamento grava completamente sul datore di lavoro.
Le imprese devono quindi adottare un approccio scrupoloso nella gestione delle risorse umane, documentando ogni tentativo di ricollocazione, al fine di evitare di incorrere nell’illegittimità del licenziamento.
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Dopo i recenti casi che hanno segnato un momento significativo nell’evoluzione dell’attività degli influencer, evidenziando quanto sia di cruciale importanza l’autenticità tra influencer, brand e utenti, risulta di particolare interesse il recente intervento del Tribunale di Roma, che con sentenza n. 2615 del 4 marzo 2024 si è espresso sulla classificazione del rapporto di collaborazione tra influencer e Società committente, considerato riconducibile alla figura contrattuale del rapporto di agenzia di cui agli art. 1742 cod. civ. e ss.
Nel caso esaminato, il Tribunale di Roma ha ritenuto che il professionista “svolgeva una vera e propria attività promozionale di vendita dove il compenso riconosciuto è determinato dagli ordini direttamente procurati e andati a buon fine dal collaboratore”, con la possibilità per lo stesso di concedere sconti agli utenti follower.
Ciò, mentre, a parere della società ricorrente mancavano i presupposti utili a qualificare gli influencer come Agenti di Commercio in considerazione dei seguenti aspetti rilevabili dallo svolgimento della loro attività: la presenza di un contratto d’opera intellettuale – a tempo indeterminato – in virtù del quale è stata svolta la prestazione, l’assenza di un incarico stabile e continuativo, concernente la promozione e conclusione per conto della Società di contratti di vendita in una zona determinata, l’assenza di un’area delimitata di intervento, carattere distintivo della tipologia contrattuale di cui all’art. 1742 cod.civ.
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