Recentemente, l’Autorità Garante per la protezione dei dati personali è tornata sul tema dell’utilizzo dei dati biometrici nell’ambito della gestione del rapporto di lavoro. “Ad oggi, l’ordinamento vigente non consente il trattamento dei dati biometrici dei dipendenti, per finalità di rilevazione della presenza in servizio”. Lo ribadisce l’Autorità in un provvedimento dello scorso 6 giugno 2024, con il quale ha comminato ad una concessionaria, datrice di lavoro, una sanzione di euro 120 mila (anche) per aver trattato illecitamente i dati biometrici dei propri dipendenti.

L’Autorità è intervenuta a seguito del reclamo di un dipendente, che lamentava:

  • il trattamento illecito di dati personali, attraverso un sistema biometrico installato presso le due unità produttive della società datrice di lavoro e
  • l’utilizzo di un software gestionale con cui ciascun dipendente era tenuto a registrare gli interventi di riparazione svolti sui veicoli assegnati, i tempi e le modalità di esecuzione dei lavori, nonché i tempi di inattività con le specifiche causali.

Con riferimento al primo motivo del reclamo, ossia la segnalazione inerente al trattamento dei dati biometrici, l’Autorità ha​ nuovamente, chiarito che l’utilizzo dei dati biometrici da parte del datore di lavoro non è consentito. Ad oggi, non esiste infatti nessuna norma di legge che preveda l’utilizzo del dato biometrico per la rilevazione delle presenze e con l’occasione, viene ricordato che neanche il consenso manifestato dai dipendenti può essere considerato un idoneo presupposto di liceità. Ciò per l’asimmetria tra le rispettive parti del rapporto di lavoro.

Con riferimento, invece, al secondo motivo del reclamo, l’Autorità ha accertato che la società da più di sei anni, mediante un software gestionale, raccoglieva dati personali relativi alle attività dei dipendenti per redigere report mensili da inviare a casa madre, contenenti dati aggregati sui tempi impiegati dalle officine per le lavorazioni effettuate. Tale attività era stata da sempre effettuata in assenza di un’idonea base giuridica e di un’adeguata informativa che, nel contesto del rapporto di lavoro, sono espressione dei principi di correttezza e trasparenza.

Vale la pena ricordare che quest’ultima attività potrebbe, tra le altre, comportare un indiretto controllo a distanza dell’attività dei lavoratori che, in quanto tale, richiederebbe che siano esperite le garanzie previste dall’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori: sottoscrizione di un accordo sindacale o, in mancanza, ottenimento di una autorizzazione da parte dell’Ispettorato Nazionale o Territoriale del Lavoro.

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Con la sentenza n. 128 del 16 luglio 2024, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, commi 1 e 2, del D.lgs. 23/2015, nella parte in cui non prevede che la tutela reintegratoria attenuata si applichi anche nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in cui sia direttamente dimostrata in giudizio l’insussistenza del fatto materiale allegato dal datore di lavoro, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa il ricollocamento del lavoratore.

Il caso affrontato

Un lavoratore, assunto a tempo indeterminato da una agenzia di somministrazione, impugnava giudizialmente il licenziamento intimatogli per giustificato motivo oggettivo.

Il ricorrente deduceva di aver svolto varie missioni presso l’utilizzatore, per una durata complessiva inferiore a due anni, e che, cessato l’ultimo l’incarico, il datore di lavoro – in assenza di ulteriori prospettive di reimpiego – aveva attivato la procedura di messa in disponibilità per mancanza di occasioni di lavoro, di cui all’art. 25 del CCNL delle Agenzie di Somministrazione, all’esito della quale gli aveva comunicato la risoluzione del rapporto di lavoro per giustificato motivo oggettivo.

Il lavoratore contestava che si fosse determinata una situazione di assenza di offerte disponibili per posizioni richiedenti la sua professionalità, in quanto le stesse erano state in realtà destinate ad altri lavoratori.

Il lavoratore domandava, dunque, in via principale – ai sensi del comma 2 dell’art. 3 del d.lgs. n. 23 del 2015 – la reintegra nel posto di lavoro, oltre al pagamento di una indennità risarcitoria, commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto dal giorno del licenziamento all’effettiva reintegra, e, in subordine, la liquidazione dell’indennizzo di cui al comma 1 della medesima disposizione.

Il Tribunale di Ravenna, investito del caso, sollevava questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, commi 1 e 2, del D.lgs. 23/2015, nella parte in cui la norma prevede l’esclusione della tutela reintegratoria laddove il giudice accerti l’insussistenza del fatto posto alla base del recesso per giustificato motivo oggettivo.

La sentenza della Corte Costituzionale

La Corte ha preliminarmente rilevato che, sebbene le ragioni poste alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo non siano sindacabili nel merito, il principio della necessaria causalità del recesso datoriale esige che il fatto materiale posto a fondamento del provvedimento datoriale sia sussistente.

Diversamente ragionando – prosegue la Corte – si finirebbe con il creare una irragionevole differenziazione tra la predetta ipotesi e quella parallela del licenziamento disciplinare che, se intimato per un addebito insussistente, genera la reintegra.

Così facendo, peraltro, si consentirebbe alla parte datoriale di scegliere arbitrariamente, in caso di intimazione di un licenziamento fondato su un fatto insussistente, di qualificarlo come licenziamento per giustificato motivo oggettivo piuttosto che come licenziamento disciplinare, al solo fine di non rischiare l’applicazione della tutela reintegratoria.

Alla luce di quanto sopra, la Consulta ha accolto le questioni sollevate in riferimento alla violazione degli artt. 3, 4 e 35 Cost., dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, commi 1 e 2, del D.Lgs. 23/2015, nella parte in cui la norma prevede l’esclusione della tutela reintegratoria laddove il giudice accerti l’insussistenza del fatto posto alla base del recesso per giustificato motivo oggettivo

La Corte ha, infine, precisato che il vizio di illegittimità costituzionale non si ravvisa, invece, qualora il fatto materiale, allegato dal datore di lavoro a fondamento del licenziamento, sussista, ma il licenziamento risulti comunque per violazione dell’onere di repêchage. Ne consegue che la violazione di tale obbligo attiverà esclusivamente la tutela indennitaria di cui al primo comma dell’art. 3 del D.Lgs. n. 23 del 2015.

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Il Decreto-legge n. 19/2024 (convertito dalla L. n. 56/2024) ha inasprito le sanzioni in materia di somministrazione, appalti e distacco illeciti ampliando le casistiche in cui si incorre in sanzioni di rilevanza penale.

In sintesi, appalto, distacco e somministrazione sono considerati illeciti quando l’utilizzo dei lavoratori avviene in assenza dei requisiti di legge, con finalità elusive e senza un effettivo esercizio dei poteri direttivi e organizzativi da parte dell’appaltatore, del distaccante o del somministratore.

Sul punto, l’Ispettorato Nazionale del Lavoro è intervenuto dapprima con la nota n. 1091/2024 al fine di chiarire l’esatto importo delle ammende da applicare e il complesso meccanismo della recidiva, e successivamente con nota n. 1133/2024 ove prende in esame il regime intertemporale di applicazione delle nuove sanzioni.

Su questo ultimo punto, l’Ispettorato precisa che le nuove sanzioni penali trovano applicazione in relazione alle condotte poste in essere a decorrere dal 2 marzo 2024, la data di entrata in vigore del Decreto-legge n. 19/2024. Per le condotte iniziate ed esaurite prima del 2 marzo, invece, si applica il precedente regime sanzionatorio di natura amministrativa, regolato con la circolare n. 6/2016 dal Ministero del Lavoro.

Tuttavia, il vero tema, oggetto di chiarimento, attiene a tutte le condotte a cavallo dell’entrata in vigore del Decreto-legge 19/2024. L’Ispettorato afferma che le condotte iniziate prima del 2 marzo 2024 e proseguite dopo tale data hanno una valenza esclusivamente penale e perciò sono soggette alle pene stabilite dal nuovo regime sanzionatorio.

Inoltre, chiarisce l’Ispettorato, per la determinazione della sanzione applicabile, parametrata al numero di giornate di illecito impiego di personale, in ragione dell’alternatività tra pena detentiva e pecuniaria, vanno considerati anche i periodi precedenti il 2 marzo. Ciò in quanto le giornate di impiego hanno rilievo nella valutazione della gravità dell’illecito, la quale, a sua volta, determina una reazione sanzionatoria proporzionale e “vincolata” poiché predeterminata in ragione dei lavoratori coinvolti e del numero delle giornate e costituiscono un mero elemento di quantificazione delle ammende in riferimento a una condotta necessariamente da considerarsi unitaria.

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Il Tribunale di Campobasso, con la sentenza del 10 aprile 2024, si è occupato di una tematica che, negli ultimi anni, ha assunto una sempre maggiore rilevanza nel nostro ordinamento e che è rappresentata dall’individuazione dei contratti collettivi firmati dal “sindacato maggiormente rappresentativo”.

In un contesto, infatti, in cui la normativa italiana rinvia, sempre più frequentemente, alla disciplina contenuta nei contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative, la corretta identificazione di quale contratto collettivo di settore possa applicarsi, di volta in volta, nel caso concreto, risulta fondamentale ma, allo stesso tempo, non sempre agevole.

La complessità di tale opera interpretativa è stata affrontata dalla giurisprudenza italiana, la quale, negli anni, ha individuato come indici della maggiore rappresentatività 

(i) la consistenza numerica delle organizzazioni sindacali,

(ii) l’equilibrata presenza in diversi settori produttivi,

(iii) un’organizzazione estesa a tutto il territorio nazionale (considerata l’ampiezza e diffusione delle relative strutture organizzative), nonché

(iv) l’effettiva partecipazione, con carattere di continuità e sistematicità, alla contrattazione collettiva (i.e. partecipazione alla formazione e stipulazione di contratti collettivi di lavoro) e alla risoluzione di vertenze individuali, plurime e collettive di lavoro.

I predetti indicatori, tuttavia, non sempre hanno permesso una veloce e agevole ricognizione dei sindacati maggiormente rappresentativi e la conseguente individuazione della contrattazione collettiva applicabile.

In tale contesto, la sentenza in commento, richiamando i principi giurisprudenziali appena esposti, ne ha integrato il ragionamento giuridico, dettando un criterio oggettivo, facilmente verificabile, e che – dati alla mano – tiene conto del sistema sindacale-contrattuale di riferimento, più che delle caratteristiche della singola organizzazione sindacale firmataria.

Nella specie, il Tribunale di Campobasso, chiamato a dirimere una controversia relativa all’applicazione del “CCNL Terziario Confcommercio” in luogo del (asseritamente non rappresentativo) “CCNL Anpit-Cisal”, ha affermato che “laddove per la medesima categoria vi sia una pluralità di contratti collettivi nazionali è necessario individuare il cd. contratto leader ” e che “per stabilire la maggiore o minore rappresentatività non si deve considerare il CCNL bensì le parti sociali, sia dal lato datoriale sia dal lato lavoratori ”.

Pertanto, ai sensi della sentenza in commento, la valutazione della maggiore rappresentatività deve riguardare ambedue le parti sociali, ossia la delegazione sindacale dei lavoratori, da una parte, e quella delle imprese, dall’altra. In altri termini, la verifica della rappresentatività comparata deve essere effettuata considerando non una singola organizzazione sindacale, ma l’intera compagine sindacale (dei lavoratori e delle imprese) che partecipa alla gestione di un determinato sistema contrattuale.

Continua a leggere la versione integrale pubblicata su Norme e Tributi Plus Diritto del Il Sole 24 Ore.

È notizia di qualche giorno fa che il Garante Privacy è tornato recentemente sul tema della conservazione dei metadati delle e-mail aziendali da parte del datore di lavoro. Il provvedimento del 6 giugno, dal titolo “Programmi e servizi informatici di gestione della posta elettronica nel contesto lavorativo e trattamento dei metadati”, estende il periodo di conservazione dei metadati da 7 a 21 giorni. Tale pronuncia, la n. 364 del 6 giugno 2024, avviene a distanza di diverse settimane dalla pubblicazione di una prima versione del documento di indirizzo sulla conservazione dei metadati, che aveva suscitato non poche perplessità e discussioni tra gli addetti ai lavori a tal punto da portare l’Autorità ad avviare una consultazione pubblica.

Cosa sono i metadati

Anzitutto, occorre però fare chiarezza sulla definizione di “metadati”. Con tale termine, infatti, non si devono intendere le informazioni contenute nei messaggi di posta elettronica nella loro “body–part”, bensì le informazioni relative alle operazioni di invio e ricezione e smistamento dei messaggi che possono comprendere gli indirizzi email del mittente e del destinatario, gli indirizzi IP dei server o dei client coinvolti nell’instradamento del messaggio, gli orari di invio, di ritrasmissione o di ricezione, la dimensione del messaggio, la presenza e la dimensione di eventuali allegati e, in certi casi, in relazione al sistema di gestione del servizio di posta elettronica utilizzato, anche l’oggetto del messaggio spedito o ricevuto.

Come sopracitato, con le linee di indirizzo dell’Autorità il periodo di conservazione è stato esteso a 21 giorni, e questa finestra temporale è comunque da considerarsi orientativa.

L’eventuale conservazione per un tempo più ampio, infatti, può essere effettuata solo in presenza di particolari condizioni che rendano necessaria l’estensione e, in ogni caso, le specificità di tale esigenza devono essere adeguatamente comprovate.

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