La Corte di Cassazione, Sez. Pen., mediante la sentenza n. 18311 del 16 giugno 2020., intende dare continuità all’indirizzo giurisprudenziale ormai prevalente secondo cui “integra il delitto di indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato ex art. 316-ter c.p., e non quelli di truffa o di appropriazione indebita o di indebita compensazione D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, ex art. 10-quater, la condotta del datore di lavoro che, esponendo falsamente di aver corrisposto al lavoratore somme a titolo di indennità per malattia, assegni familiari e cassa integrazione guadagni, ottiene dall’I.N.P.S. il conguaglio di tali somme, in realtà non corrisposte, con quelle da lui dovute a titolo di contributi previdenziali e assistenziali, così percependo indebitamente dallo stesso istituto le corrispondenti erogazioni” (tra le tante, Sez. 2, n. 48663 del 17/10/2014, Talone, Rv. 261140; Sez. 2, n. 15989 del 16/03/2016, Fiesta, Rv. 266520; Sez. 2, n. 51334 del 23/11/2016, Sechi, Rv. 268915; Sez. 2, n. 7600 del 12/02/2019, Cima, non mass.; Sez. 6, n. 31903 del 05/07/2019, Montanino, non mass.; Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 26-11-2019) 27-02-2020, n. 7963).
Mediante tale interpretazione, la Corte ha modificato il proprio precedente orientamento, affermato con sentenza n. 38927 del 27 ottobre 2011, secondo il quale commette il delitto di truffa aggravata (art. 640–bis c.p.) l’imprenditore che, al fine di ottenere l’erogazione della CIG ordinaria o straordinaria, abbia taciuto l’esistenza di commesse per rilevanti importi la cui evasione avrebbe consentito il normale esercizio dell’attività d’impresa senza sospensione dell’obbligo retributivo e ricaduta dei costi sulla collettività.