Nonostante la mancata impugnazione degli accordi antecedenti e il decadimento dalla possibilità, per il lavoratore, di impugnare detti accordi, il superamento dei limiti massimi di durata di un contratto a termine può rendere invalido il rapporto di lavoro. A stabilirlo è stata la Corte di Cassazione nella sentenza 15226/2023 del 30 maggio scorso, basandosi su una consolidata tradizione interpretativa e adottando una lettura restrittiva delle norme che regolano il lavoro a tempo determinato.
I fatti di causa
La pronuncia della Suprema Corte trae origine da una sentenza della Corte d’Appello di Brescia (n. 127 del 2017) che ha respinto l’impugnazione di un lavoratore contro un contratto a termine e i precedenti numerosi rapporti intercorsi con lo stesso datore di lavoro.
Nel caso di specie, il lavoratore aveva rispettato il termine di decadenza legale di 60 giorni dalla fine del rapporto per impugnare i contratti a termine solo per l’ultimo accordo. La Corte d’appello di Brescia, considerando questo fatto, ha eccepito la decadenza dall’impugnazione, respingendo ogni domanda connessa.
Avverso la sentenza della Corte d’Appello di Brescia, il lavoratore aveva proposto ricorso in Cassazione.
La decisione della Corte di Cassazione
La Suprema Corte ha in parte rivisto la predetta decisione della Corte di Appello. Da un lato, ha ribadito che “in tema di successione di contratti di lavoro a termine in somministrazione, l’impugnazione stragiudiziale dell’ultimo contratto della serie non si estende ai contratti precedenti, neppure ove tra un contratto e l’altro sia decorso un termine inferiore a quello di sessanta giorni utile per l’impugnativa”: dunque, viene confermato che l’impugnazione dell’ultimo contratto non si estende anche ai precedenti, nemmeno se tra un contratto e l’altro è trascorso un periodo di tempo inferiore a quello necessario per impugnare.
Dopo aver stabilito questo principio, la Corte di Cassazione ha analizzato la possibilità per il lavoratore di far valere, anche in presenza della decadenza, l’abuso dei contratti a termine da parte del datore dovuto a una reiterazione eccessiva dei rapporti. La Corte è partita dall’interpretazione del diritto comunitario operata recentemente della Corte di giustizia UE (sent. 14 ottobre 2020 in causa n. C-681/18, relativa all’istituto parallelo della somministrazione), secondo la quale gli Stati membri devono adottare misure per preservare la natura temporanea del lavoro interinale, al fine di evitare l’elusione della direttiva su tale tipo di lavoro.
Alla luce di questo principio, il giudice è chiamato a valutare l’effetto che la reiterazione dei contratti a termine può avere nell’eludere le norme comunitarie che stabiliscono limiti di durata e quantità per il lavoro a termine. La Corte ha ritienuto che l’esistenza storica dei rapporti precedenti possa e debba essere presa in considerazione al fine di valutare se le ragioni di ricorso al lavoro a termine siano effettivamente di natura temporanea e che questa valutazione debba rimanere valida anche se il lavoratore è decaduto dalla possibilità di impugnare tali rapporti.
In altre parole, secondo la Corte di Cassazione, la decadenza impedisce al lavoratore di intraprendere un’azione diretta rispetto ai rapporti precedenti non impugnati, ma il giudice può considerarne l’esistenza come antecedenti storici utili per valutare se ci sia stato un abuso nella ripetizione dei contratti e il superamento dei limiti massimi di durata stabiliti dalla legge (36 mesi).
Alla luce della sentenza in commento, emerge il principio secondo cui in tema di successione di contratti a termine, l’impugnazione rivolta solo nei confronti dell’ultimo contratto di una serie, quando la parte sia decaduta dall’impugnativa dei contratti precedenti, non esclude che il giudice debba tener conto, nel valutare la legittimità del contratto tempestivamente impugnato, del dato fattuale dell’esistenza di pregressi rapporti a termine, per verificare se l’attività, complessivamente considerata, possa considerarsi effettivamente temporanea o se sussista un’ipotesi di abusiva reiterazione, da accertare secondo le statuizioni della sentenza della CGUE del 14 ottobre 2020, causa C-681/18.
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