La Corte di Cassazione, con sentenza n. 6775 del 7 aprile 2016, ha affermato il diritto del lavoratore ad accedere al proprio fascicolo personale, contenente i documenti e gli atti relativi al percorso professionale e al suo avanzamento di carriera come dipendente in costanza di rapporto di lavoro. Nel caso in esame una lavoratrice aveva chiesto ripetutamente al suo datore di lavoro di accedere, ai sensi dell’art. 13 della L. n. 675/1996 (nella specie applicabile ratione temporis, attualmente D.Lgs. n. 196/2003), al proprio fascicolo personale a seguito di una serie di valutazioni negative delle sue performance professionali, senza ottenerne riscontro. La lavoratrice decideva, quindi, di rivolgersi al Garante Privacy, che – dopo un primo invito rivolto al datore di lavoro affinché ottemperasse spontaneamente alla richiesta – emetteva due provvedimenti in favore della richiedente. Rimasti disattesi anche detti provvedimenti, la lavoratrice si rivolgeva, per la tutela dei propri diritti, all’autorità giudiziaria. Sia il giudice di prime cure che la Corte territoriale rigettavano i suoi ricorsi. La lavoratrice adiva, quindi, la Corte di Cassazione che ha accolto le sue ragioni. In particolare, la Suprema Corte ha osservato che l’obbligo del datore di lavoro di consentire ad un dipendente il pieno esercizio del diritto di accesso al proprio fascicolo, deriva, prima ancora che dalla legge in materia di privacy, dal rispetto dei canoni di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 cod. civ. Quanto poi al principio dell’alternatività del ricorso all’autorità giudiziaria rispetto al ricorso al Garante della Privacy la Corte, confermando un precedente orientamento, ha affermato che qualora, in sede giurisdizionale, “si fa valere l’inottemperanza da parte del gestore dei dati personali (ndr nel caso di specie il datore di lavoro) rispetto ai provvedimenti assunti dal Garante e/o viene proposta una domanda di risarcimento del danno patrimoniale o non patrimoniale – che è riservata all’esame del giudice ordinario e che comunque ha causa petendi e petitum specifici e del tutto diversi rispetto alle ragioni fatte valere con il ricorso al Garante – non può certamente ipotizzarsi l’applicazione del suddetto principio di alternatività delle tutele (vedi: Cass. 17 settembre 2014, n. 19534)”.