La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 23735 del 22 novembre 2016, torna a tracciare i confini tra licenziamento ontologicamente disciplinare e licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Nella specie il licenziamento per giustificato motivo oggettivo sottoposto al suo esame era stato motivato da “una pressoché totale assenza di sinallagmaticità, fra le obbligazioni a noi facenti capo nei di Lei confronti, ed il contenuto della Sua prestazione (anche sotto il profilo degli esiti della stessa), che non possiamo non riconnettere ad una – per quanto (…) sollecitata – mancanza di adeguamento alle esigenze (comportamentali, produttive, valutative, ecc.), che la evoluzione del mercato, invece, comporta”. Al riguardo La Corte ha chiarito che in tema di licenziamento individuale, deve escludersi la sussistenza di un giustificato motivo oggettivo quando, al di là di ogni riferimento a ragioni dell’impresa, il licenziamento si fonda su un comportamento riconducibile alla sfera volitiva del lavoratore e lesivo dei suoi doveri contrattuali. La Corte ha, altresì, precisato che ragioni organizzative legittimanti un licenziamento per giustificato motivo possono ravvisarsi in condizioni attinenti alla persona del lavoratore purché si tratti di circostanze oggettive idonee a determinare la perdita di interesse del datore di lavoro alla prestazione, quali la sopravvenuta inidoneità per infermità fisica, la carcerazione, il ritiro della patente o la sospensione delle autorizzazioni amministrative, la mancanza del titolo professionale abilitante, e non, quindi tali da poter configurare, nella sostanza, un inadempimento comunque imputabile allo stesso. Di tal guisa, la Corte ha statuito che il licenziamento sottoposto al suo esame, seppur qualificato formalmente dal datore di lavoro come licenziamento per giustificato motivo oggettivo, va ricondotto, dato il suo tenore, nelle ipotesi di licenziamento disciplinare.