La Corte di Cassazione, con sentenza del 1° marzo 2018 n. 4883, ha dichiarato ritorsivo, confermando la decisione di primo e secondo grado, il licenziamento per giusta causa intimato ad un lavoratore perché accusato di aver simulato lo stato di malattia. Ciò in quanto lo stato morboso in cui lo stesso versava era risultato effettivo sulla scorta di dati obiettivi e di logiche considerazioni che muovevano dal suo intento manifesto di continuare nello svolgimento dell’attività alle dipendenze della società. Inoltre, sempre secondo la Suprema Corte, il quadro probatorio delineato era univoco nel collegare l’atto di recesso datoriale al rifiuto da parte del lavoratore di accettare una transazione delle questioni economiche inerenti al pregresso rapporto di lavoro, così configurandosi l’intento ritorsivo che lo ispirava. Pertanto, la Corte ha dichiarato nullo il recesso datoriale, condannando la società alla reintegra del lavoratore nel proprio posto di lavoro ed al pagamento delle spese di lite. In sostanza il licenziamento, quale atto interruttivo del rapporto di lavoro, deve essere adottato solo a fronte di una condotta scorretta del dipendente tale da ledere il vincolo di fiducia intercorrente tra le parti e non come forma di vendetta, pena la sua illegittimità.