La Corte di Appello di Milano, con sentenza n. 2116 del 22 gennaio 2019, si è pronunciata, riformando la sentenza di primo grado n. 483/2017 del Tribunale di Monza, sulla validità del patto di prova accluso al contratto di lavoro e sulla legittimità del recesso intimato per mancato superamento della prova stessa.
Il fatto
Un dirigente ricorreva al Tribunale di Monza affinché dichiarasse nullo il patto di prova accluso al suo contratto di lavoro e conseguentemente illegittimo il licenziamento intimatogli, con condanna della società, sua ex datrice di lavoro, al pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso e dell’indennità supplementare.
Ad avviso del Tribunale il patto di prova era nullo in quanto il riferimento alla figura di “Direttore Commerciale” non era idoneo ad integrare il requisito di specificità delle mansioni richiesto dalla giurisprudenza, al punto da non consentire al dirigente l’individuazione del contenuto del patto e dei compiti da svolgere.
Il Giudice di prime cure sosteneva, altresì, che tanto più è apicale il ruolo attribuito al lavoratore ovvero quanto più si tratta di lavoro intellettuale e non meramente esecutivo, tanto maggiore deve essere il grado di determinatezza e specificità richiesto nell’indicazione delle mansioni.
Sempre secondo il Tribunale di Monza, nel caso in esame, alla mancata specificazione delle mansioni nel contratto individuale di lavoro non poteva supplire il richiamo alla contrattazione collettiva, poiché essa “contiene una mera elencazione del personale con livello dirigenziale”.
In tale contesto, il Giudice di prime cure riteneva pure irrilevante, ai fini della legittimità del patto di prova, la circostanza che il ricorrente avesse già in precedenza svolto mansioni analoghe a quelle dedotte nel contratto di assunzione.
Il Giudice accoglieva così, con sentenza n. 483/2017, il ricorso presentato dal dirigente. Avverso la decisione di primo grado ricorreva in appello la società soccombente, chiedendo che venisse (i) accertata la validità del patto di prova; (ii) dichiarata la legittimità del recesso effettuato e, per l’effetto, riformata la sentenza di primo grado anche nella parte in cui aveva condannato la stessa al pagamento in favore del dirigente dell’indennità sostitutiva del preavviso (oltre al versamento della relativa contribuzione previdenziale) e dell’indennità supplementare.
La decisione della Corte d’Appello
La Corte di Appello di Milano ha accolto il ricorso della società datrice di lavoro, riformando in toto la sentenza di primo grado.
Nello specifico la Corte d’Appello ha statuito che, soprattutto nei casi di lavoro intellettuale e non meramente esecutivo, le mansioni non devono necessariamente essere indicate in dettaglio, essendo sufficiente che, in base alla formula adoperata nel contratto, siano determinabili.
Secondo la Corte d’Appello, l’assunzione con la qualifica di Dirigente ai sensi del CCNL Dirigenti Industria e l’attribuzione delle mansioni di “Direttore Commerciale” erano dati sufficientemente chiari e specifici perché il lavoratore comprendesse il tipo di mansioni che l’azienda gli chiedeva di svolgere.
Contrariamente a quanto sostenuto dal Tribunale di Monza, inoltre, la Corte di Appello ha rilevato che l’indicazione delle mansioni all’interno patto di prova operata “per relationem” alle declaratorie del CCNL di settore, fosse del tutto sufficiente ad individuare con certezza quelle assegnate all’appellato.
Sul punto, infatti, la Corte d’Appello ha osservato che il CCNL Dirigenti Industria:
- qualifica come dirigente il lavoratore “che ricopre in azienda un ruolo caratterizzato da un elevato grado di professionalità, autonomia e potere decisionale ed esplica la sua funzione al fine di promuovere, coordinare e gestire la realizzazione degli obiettivi di impresa” e
- precisa che rientrano in questa definizione “i direttori, i condirettori, coloro che sono posti con ampi poteri direttivi a capo di importanti servizi o uffici (…)”.
Peraltro, la Corte d’Appello ha evidenziato che nelle trattative antecedenti l’assunzione era stato chiarito al lavoratore che la posizione proposta era quella di “Responsabile Commerciale” con compiti di sviluppo della politica commerciale, dovendo la società ancor meglio definire “la propria strategia sia in termini di ricerca di partner che di strategia di vendita per tipologia di prodotti”.
Nella valutazione complessiva effettuata dalla Corte di Appello di Milano è stato dato risalto anche il fatto che il dirigente avesse già svolto mansioni di direttore commerciale in precedenti aziende per cui appariva del tutto improbabile che lo stesso non avesse pienamente compreso quali fossero le mansioni oggetto della prova.
Pertanto, a parere della Corte d’Appello di Milano, il ruolo di “Direttore Commerciale” associato, da un lato alla qualifica di “Dirigente” così come definita dal CCNL applicato e, dall’altro, al tipo di attività svolta, ha circoscritto con una certa precisione le mansioni oggetto del patto di prova. Mansioni, oltretutto, congruenti con quelle indicate nel patto stesso, non essendosi mai lamentato, come è emerso dalle risultanze istruttorie, il lavoratore nei quasi 6 mesi di lavoro di non aver svolto le funzioni di “Direttore Commerciale”.
Così statuendo, la Corte di Appello di Milano ha ritenuto del tutto valido il patto di prova e condannato, così, il dirigente a restituire alla società quanto percepito in esecuzione della sentenza di prima grado, oltre alle spese del doppio grado di giudizio.
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