La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 20976/2017, ha affermato che la previsione sottoscritta dalle parti in occasione della risoluzione anticipata dal rapporto di lavoro, nella quale l’impresa si impegna a versare una somma lorda a titolo di integrazione sul Tfr, a fronte della rinuncia da parte del lavoratore a eventuali controversie relative al calcolo del Tfr nel suo complesso, equivale a mera quietanza e non ha efficacia estintiva rispetto a possibili rivendicazioni future dello stesso dipendente relative, come nel caso di specie, all’incidenza del lavoro straordinario sul Tfr. La Suprema Corte, avallando l’interpretazione offerta dalla Corte di merito, ha confermato che l’erogazione di un importo “al solo fine di evitare qualsiasi rischio di eventuali controversie che dovessero coinvolgere il calcolo della indennità di anzianità al 31 maggio 1982 e del trattamento di fine rapporto nel suo complesso”, non costituisce puntuale rinuncia del dipendente, poiché non contiene alcun riferimento al computo del compenso per lavoro straordinario, ma reca solo un generico riferimento all’indennità di anzianità maturata al 31 maggio 1982 e al TFR, del tutto inidoneo a radicare nel lavoratore la consapevolezza di dismettere la pretesa al computo suddetto. La Suprema Corte così statuendo conferma quell’orientamento giurisprudenziale secondo cui la quietanza a saldo sottoscritta dal lavoratore ove contenga una dichiarazione di rinuncia riferita, in termini generici, ad una serie di titoli in astratto ipotizzabili in relazione al rapporto di lavoro ed alla sua conclusione, può assumere il valore di rinuncia o di transazione solo se risulta accertato, “anche sulla base dell’interpretazione del documento o per concorso di altre specifiche circostanze desumibili aliunde”, che essa sia stata rilasciata con la consapevolezza di diritti determinati od obiettivamente determinabili e con il cosciente intento di abdicarvi o di transigere sui medesimi. In caso contrario tali enunciazioni sono assimilabili a clausole di stile e, pertanto, non sono di per sé sufficienti a comprovare l’effettiva sussistenza di una volontà dispositiva dell’interessato.