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Licenziamento illegittimo: l’indennità risarcitoria dopo la decisione della Consulta

01 Feb 2019

La decisione della Corte Costituzionale inizia a produrre i suoi effetti nei procedimenti aventi ad oggetto i licenziamenti intimati nell’ambito dei contratti di lavoro a tutele crescenti. Sulla scia del Tribunale di Bari che, con ordinanza 7016 del 11 ottobre 2018, ha dato applicazione alla sentenza della Corte Costituzionale ancor prima della pubblicazione delle motivazioni, il Tribunale di Genova estende il principio dalla stessa enunciato alle disposizioni che fanno espresso rinvio all’art. 3 D.Lgs. 23/2015 in forza di un’interpretazione costituzionalmente orientata.

In particolare, con ordinanza del 21 novembre 2018, il Tribunale di Genova ha ritenuto applicabile il predetto principio anche ai rapporti disciplinati dall’art. 9 del D.Lgs. 23/2015 ovvero ai rapporti di lavoro intercorsi con aziende che non hanno i requisiti dimensionali di cui all’articolo 18 Legge n. 300/70.

 

Il quadro normativo prima dell’intervento della Corte Costituzionale

 

Secondo quanto disposto dal D.Lgs. 23/2015 (cd. contratto a tutele crescenti), in presenza di un licenziamento illegittimo, salvo particolari casi, il giudice dichiara estinto il rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale di importo pari a due mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, partendo da un minimo di quattro fino ad un massimo di ventiquattro mensilità.

Per le imprese con non più di 15 dipendenti, l’ammontare dell’indennità previsto dall’art. 3, comma 1, del D.Lgs 23/2015, ai sensi dell’art. 9 del D.Lgs. stesso, è dimezzato e non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità.

Nel mese di luglio 2018 il D.L. 87/2018, convertito nella Legge 96/2018 (cd. Decreto Dignità), ha modificato le soglie di tutela minima e massima, aumentandole della metà senza, tuttavia, variare le modalità di determinazione dell’indennità risarcitoria che continuava ad essere legata all’anzianità di servizio del dipendente (due mensilità per ogni anno intero, ridotta ad una per le piccole imprese).

 

La sentenza della Corte Costituzione 194/2018

 

Con la sentenza 194 depositata l’8 novembre 2018 e pubblicata il successivo 14 novembre, la Corte Costituzionale ha scardinato il meccanismo delle tutele crescenti, eliminando il parametro delle due mensilità di riferimento per il calcolo del Tfr per ogni anno di servizio quale esclusiva unità di misurazione dell’indennità per licenziamento illegittimo.

Secondo la Consulta il meccanismo di quantificazione del risarcimento previsto dal D.Lgs. 23/2015, anche nella formulazione modificata a cura del Decreto Dignità, determina una “indennità rigida, in quanto non graduabile in relazione a parametri diversi dall’anzianità di servizio, e la rende uniforme per tutti i lavoratori. L’indennità assume così i connotati di una liquidazione forfetizzata e standardizzata…. del danno derivante al lavoratore dall’ingiustificata estromissione dal posto di lavoro a tempo indeterminato”.

A parere della Corte Costituzionale nella determinazione del danno dovuto al lavoratore illegittimamente licenziato, fermi i limiti previsti dalla legge, non può prescindersi anche da altri criteri, quali quelli “desumibili in chiave sistematica dall’evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti (numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell’attività economica, comportamento e condizioni delle parti)”.

 

Il Tribunale di Genova

 

Il Tribunale di Genova, con ordinanza del 21 novembre 2018, in forza di un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 9 del D.Lgs. 23/2015, ha riconosciuto a una dipendente illegittimamente licenziata l’indennità nella misura massima, ovvero sei mensilità. Tale indennità è stata determinata prendendo come riferimento, oltre all’anzianità aziendale, altri criteri, quali le dimensioni modeste dell’azienda e le elevate competenze della lavoratrice.

 

I Fatti

 

Il Tribunale veniva adito da una giornalista licenziata a seguito di una riorganizzazione aziendale che aveva comportato la soppressione della posizione dalla stessa ricoperta (“collaboratore esterno”) ed una ridistribuzione delle competenze e delle responsabilità.

 

La decisione

 

Il Tribunale – richiamando il principio giurisprudenziale in forza del quale il giudice, nel caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, determinato da esigenze di riassetto organizzativo dell’azienda, non può sindacare la scelta dei criteri di gestione, ma può controllare soltanto l’esistenza reale del motivo addotto ed il suo collegamento col recesso intimato al lavoratore (cfr., tra le tante, Cass. sez. lav., 7474/2012, 15157/2011 e 24235/2010) – ha dichiarato l’illegittimità del licenziamento. Ciò in quanto “il nuovo piano editoriale non ha modificato la realtà dell’ambiente di lavoro in cui operava la ricorrente al momento del licenziamento”.

Secondo il giudice di merito, infatti, la scelta di licenziare la ricorrente non si collegava al nuovo piano editoriale ed alle ragioni poste alla base del licenziamento. Mancava dunque la prova di un collegamento funzionale effettivo tra il riassetto aziendale enunciato ed il provvedimento adottato nei confronti della lavoratrice.

 

Le conseguenze sul piano sanzionatorio

 

Stante l’illegittimità del recesso, il giudice di merito – in assenza dei requisiti dimensionali di cui all’art. 18 L. 300/70 – ha ritenuto che la tutela spettante alla lavoratrice fosse quella sancita dall’ art. 9, primo comma, del D.Lgs. 23/2015. Ciò, sull’assunto che (i) la lavoratrice era stata assunta il 6 dicembre 2016, quindi dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. 23/2015; e (ii) il caso di specie non poteva essere assoggettato alla disciplina del Decreto Dignità, in quanto il licenziamento era stato intimato prima della sua entrata in vigore.

Anche se l’art. 9 del D.Lgs. 23/2015 non ha subito censure – non essendo stato oggetto del quesito di costituzionalità – è inevitabile, a parere del Tribunale, valutare l’incidenza della pronuncia della Corte Costituzionale sulla sua applicazione. Ciò, sia perché questa norma richiama direttamente l’art. 3, primo comma, del D.Lgs 23/2015 sia perché il meccanismo di determinazione dell’indennità ivi indicato è lo stesso ed è parametrato esclusivamente all’anzianità di servizio del lavoratore.

Di conseguenza, ad avviso del Tribunale di Genova – onde evitare un’applicazione contrastante con la pronuncia della Corte Costituzionale 194/2018 – deve ritenersi che il rinvio all’ “ammontare delle indennità e dell’importo previsti dall’art. 3, comma 1 del D. Lgs. 23/2015 vada letto in riferimento a tutti i criteri risarcitori indicati dalla sentenza n. 194/2018”.

In applicazione di tale soluzione interpretativa, costituzionalmente orientata, costituiscono elementi meritevoli di considerazione nella quantificazione del risarcimento non solo l’anzianità di servizio ma anche le dimensioni dell’impresa e altri elementi contrattuali. E questi ultimi assumono particolare rilievo nel caso in esame giacché l’attribuzione alla lavoratrice della qualifica di collaboratrice esterna viene ad incidere tanto sul valore della retribuzione alla stessa spettante quanto sulle prospettive di una sua ricollocazione nell’ambiente giornalistico.

 

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