La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 20211 pubblicata il 7 ottobre 2016, si è pronunciata sul tema del licenziamento per giusta causa intimato ad un dipendente per aver partecipato ad un «violento diverbio con un collega poi seguito da vie di fatto». Nel caso di specie, la Cassazione ha confermato la pronuncia della Corte d’appello di Milano, che aveva ritenuto illegittimo il provvedimento espulsivo e conseguentemente disposto la reintegrazione del dipendente, poiché il datore di lavoro non aveva provato il fatto storico addebitatogli sotto il profilo sia della materialità che della intenzionalità della condotta. Ed infatti, secondo la ricostruzione della Corte d’Appello, i testimoni avevano confermato che una colluttazione tra i due lavoratori era effettivamente avvenuta, rendendo tuttavia dichiarazioni contrastanti sulle relative modalità, sicché non poteva ritenersi raggiunta una prova certa sulla dinamica degli eventi. La società, nell’impugnare in Cassazione la sentenza di merito, deduceva che (i) la Corte territoriale aveva valutato erroneamente il materiale probatorio acquisito e (ii) il dipendente – essendo acclarato in atti che il diverbio si era concretamente verificato – avrebbe dovuto dimostrare che la sua condotta aveva rappresentato la reazione all’aggressione subita dal collega. La Cassazione ha respinto la tesi attorea. Ciò in quanto, ad avviso dei giudici di legittimità, in tema di licenziamento per giusta causa, è onere del datore di lavoro dimostrare il fatto ascritto al dipendente, provandolo sia nella sua materialità che con riferimento all’elemento psicologico. La prova di un esimente che viene posta a carico del lavoratore è elemento che viene in rilievo solo laddove vi sia stata la previa dimostrazione delle mancanze allo stesso ascritte, mancanze la cui prova non era stata raggiunta nel caso di specie.