“L’uso di dati personali non è soggetto all’obbligo di informazione ed alla previa acquisizione del consenso del titolare quando i dati stessi vengano raccolti e gestiti nell’ambito di un processo”. Ciò “purché i dati siano inerenti al campo degli affari e delle controversie giudiziarie che ne scrimina la raccolta, non siano utilizzati per finalità estranee a quelle di giustizia in ragione delle quali ne è avvenuta l’acquisizione e sussista il provvedimento autorizzatorio”.
Lo ha ribadito la Corte di Cassazione, ordinanza n. 24797/2024, del 16 settembre 2024.
Nel caso di specie, alcuni dipendenti avevano – ciascuno nell’ambito del proprio contenzioso avente ad oggetto questioni inerenti alle loro posizioni lavorative – depositato in giudizio la registrazione di una conversazione avvenuta diversi anni prima tra un loro collega ed alcuni dirigenti della società datrice di lavoro. Registrazione che era stata effettuata all’insaputa, e senza il consenso, dei partecipanti. I dirigenti coinvolti proponevano reclamo all’Autorità Garante per la protezione dei dati personali che respingeva la richiesta constatando che la registrazione, e quindi la connessa attività di trattamento dei dati personali, era stata effettuata per finalità connesse alla contestazione di addebiti nell’ambito del rapporto di lavoro. A questo punto, i dirigenti si rivolgevano al giudice ordinario.
Oltre alla consolidata giurisprudenza nazionale formatasi sul tema, la Cassazione richiama anche la Corte di giustizia (UE) che, con sentenza del 2 marzo 2023, C-268/21 – Norra Stockholm Bygg AB contro Per Nycander AB, chiariva che “qualora dati personali di terzi vengano utilizzati in un giudizio è il giudice nazionale che deve ponderare, con piena cognizione di causa e nel rispetto del principio di proporzionalità, gli interessi in gioco e che “tale valutazione può, se del caso, indurlo ad autorizzare la divulgazione completa o parziale alla controparte dei dati personali che gli sono stati così comunicati, qualora ritenga che una siffatta divulgazione non ecceda quanto necessario al fine di garantire l’effettivo godimento dei diritti che i soggetti dell’ordinamento traggono dall’articolo 47 della Carta“.
E, ricorda la Corte di Cassazione nella pronuncia in commento, gli “artt. 17 e 21 del GDPR rendono palese che nel bilanciamento degli interessi in gioco il diritto a difendersi in giudizio può essere ritenuto prevalente sui diritti dell’interessato al trattamento dei dati personali”.