Con la interessante sentenza n. 8 del 2 gennaio 2020, la Suprema Corte ha statuito che, in considerazione del carattere di specialità della disciplina della invalidità del licenziamento rispetto a quella generale della invalidità negoziale, il giudice non può rilevare di ufficio una ragione di nullità del licenziamento diversa da quella eccepita dalla parte. La vicenda giudiziaria trae origine da un licenziamento disciplinare intimato dal Ministero degli Affari Esteri ad un funzionario amministrativo del Consolato generale d’Italia a San Paolo del Brasile per presunte irregolarità commesse nel rilascio di visti per l’ingresso in Italia. Il licenziamento era stato irrogato richiamando l’art. 25, co. 5, lett. a) e d) del C.C.N.L. 1994-1997 e dunque le fattispecie inerenti la “commissione in servizio di gravi fatti illeciti di rilevanza penale” (lett. a) e la commissione di “fatti o atti dolosi, non ricompresi nella lettera “a”, anche nei confronti di terzi, di gravità tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro” (lett. d).
Nel dettaglio, le condotte da cui derivava la sanzione espulsiva, attuate tra il novembre 2000 e l’aprile 2001, avevano costituito oggetto di contestazione nel mese di maggio 2001, con procedimento disciplinare poi sospeso in attesa dell’esito di un procedimento penale sulla vicenda a cui è poi seguito il licenziamento a novembre 2015. La Corte d’Appello di Roma, esaminati gli atti di causa, aveva respinto il reclamo proposto dal funzionario amministrativo avverso alla sentenza del Giudice di prime cure di Roma che aveva rigettato l’impugnativa del licenziamento disciplinare, ribadendone la legittimità. La Corte d’Appello aveva, infatti, ritenuto che, nonostante il proscioglimento per prescrizione pronunciato in sede penale, gli atti provenienti dal Tribunale penale e valutati in sede disciplinare avevano confermato le condotte perseguite e legittimavano la scelta del Ministero degli Affari Esteri di adottare la sanzione non conservativa del licenziamento. Avverso la decisione della Corte d’Appello di Roma, il funzionario amministrativo depositava ricorso per Cassazione sulla base di un unico e articolato motivo con cui affermava, richiamando gli artt. 360 nn. 3 e 5 c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 55-bis, co. 4 e dell’art. 55-ter, co. 2, 3 e 4 d.lgs. 165/2001, nonché dell’art. 653, co. 1-bis, c.p.c. Il Ministero degli Affari Esteri si costituiva ritualmente depositando controricorso. Il motivo di ricorso in Cassazione era articolato dal funzionario amministrativo in diversi profili di censura.
Da un primo profilo, il ricorrente sosteneva che il Ministero degli Affari Esteri si fosse limitato a richiamare senza valutarne la sussistenza “i fatti così come valutati dal giudice penale nel corso del giudizio di primo grado svolto in quella sede, senza alcun autonomo apprezzamento” contrariamente a quanto emergeva dalla decisione della Corte territoriale di secondo grado che aveva ritenuto che il datore di lavoro avesse valutato la sussistenza di ogni profilo di responsabilità del funzionario amministrativo.
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