La Corte di Cassazione, Quarta Sez. Penale, con sentenza n. 35934 del 9 agosto 2019, ha affrontato il caso relativo a un incidente occorso a un lavoratore “in nero”. I giudici di legittimità, confermando la decisione di merito, hanno riconosciuto sia la responsabilità del legale rappresentante della società, nella sua qualità di datore di lavoro, sia la responsabilità amministrativa della stessa società in base al Dlgs 231/2001. Quanto a quest’ultima alla società è stata applicata, oltre alla sanzione pecuniaria, la sanzione amministrativa dell’interdizione dall’esercizio dell’attività economica per la durata di un mese, con un conseguente ulteriore danno patrimoniale e d’immagine.
I fatti e i precedenti gradi di giudizio
La controversia in esame ha ad oggetto l’incidente occorso a un lavoratore in nero che, mentre stava smontando una trave modulare del palco ove si era tenuta una manifestazione musicale, aveva perso l’equilibrio, cadendo da un’altezza di circa due metri rispetto al piano stradale. Il lavoratore aveva riportato lesioni da cui era derivata un’incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un tempo superiore ai quaranta giorni, con indebolimento permanente della funzione uditiva.
Sia il Tribunale di Brindisi che la Corte d’Appello di Lecce avevano dichiarato il legale rappresentante della società, nella sua qualità di datore di lavoro, colpevole del reato di lesioni colpose, condannandolo altresì al risarcimento dei danni patiti dall’infortunato, con riconoscimento di una provvisionale pari a Euro 10.000,00. I giudici di merito avevano, inoltre, riconosciuto la responsabilità amministrativa della stessa società in base al Dlgs 231/2001.
La Corte di Cassazione
Avverso la decisione della Corte di Appello, il datore di lavoro, in proprio e nella sua qualità di legale rappresentate della società, è ricorso dinanzi la Corte di Cassazione, per due diversi motivi.
Con il primo, è stato affermata la sussistenza di una condotta abnorme ed imprevedibile dell’infortunato, che si era avventurato per dare una mano al suo collega, ponendo così in essere una condotta opinabile ed esorbitante, tale da privare di ogni responsabilità il datore di lavoro.
Con il secondo motivo, veniva eccepito che non risultava provato il nesso di causalità tra le condotte omissive dell’imputato e l’evento verificatosi.
La responsabilità della società
La Corte di Cassazione ha dichiarato, innanzitutto, inammissibile il ricorso presentato dalla società per evidente incompatibilità dell’avvocato che assisteva sia il datore di lavoro imputato del reato presupposto, sia la società chiamata a rispondere dell’illecito amministrativo conseguente. Invero, in tema di responsabilità amministrativa degli enti, il legale rappresentante indagato o imputato del reato presupposto non può provvedere, a causa di tale condizione di incompatibilità, alla nomina del difensore dell’ente, per il generale e assoluto divieto di rappresentanza posto dal Dlgs n. 231/2001, articolo 39, (S.U., n. 33041 del 28 maggio 2015).
Inoltre, la Suprema Corte ha confermato la responsabilità della società per l’illecito amministrativo previsto dall’articolo 25-septies, comma 3, del Dlgs 231/2001, quindi per non aver posto in essere un Modello organizzativo e di gestione per la salute e la sicurezza sul lavoro (si veda l’articolo 30 del Dlgs 81/2008) idoneo a prevenire la commissione del reato di lesioni gravi con violazione delle norme antinfortunistiche.
Di conseguenza, alla società è stata applicata la sanzione pari a 100 quote, per un importo complessivo di 30.000,00 euro; inoltre, alla stessa è stata comminata la sanzione amministrativa dell’interdizione dall’esercizio dell’attività per la durata di un mese (articolo 9, comma 2, lettera A, del Dlgs 231/2001), con un conseguente ulteriore danno patrimoniale e d’immagine.
La responsabilità del datore di lavoro
La Suprema Corte ha, altresì, ritenuto congrua e completa di motivazione la decisione della Corte territoriale la quale aveva riconosciuto la responsabilità del ricorrente che aveva “agito come datore di lavoro”, essendo stato proprio lo stesso a telefonare alla persona offesa per invitarla a recarsi al cantiere.
Inoltre, secondo la Corte, l’asserita abnormità della condotta dell’infortunato costituiva doglianza manifestamente infondata. Invero, “in tema di prevenzione antinfortunistica, perché la condotta colposa del lavoratore possa ritenersi abnorme e idonea ad escludere il nesso di causalità tra la condotta del datore di lavoro e l’evento lesivo, è necessario non tanto che essa sia imprevedibile, quanto, piuttosto, che sia tale da attivare un rischio eccentrico o esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia”.
Ebbene, nel caso di specie l’infortunato era intento a svolgere il compito che gli era stato assegnato e la sua caduta, avvenuta mentre stava aiutando un collega a trasportare un traliccio, rientrava per l’appunto nell’espletamento dei sui compiti. Egli, quindi, non ha posto in essere alcuna condotta abnorme, esorbitante o eccedente le sue mansioni. Inoltre, sempre a parere della Corte di Cassazione, era stato provato che se vi fossero stati i necessari ed idonei dispositivi di protezione individuale e, in particolare, quelli previsti per i lavori da svolgersi in quota, l’evento non si sarebbe verificato.
Di conseguenza, la Corte ha dichiarato entrambi i ricorsi inammissibili e condannato i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.