La Corte di Cassazione, sez. IV pen., con la sentenza dello scorso 21 giugno 2022, n. 23809, ha chiarito il perimetro della definizione di “lavoratore” ai fini della tutela della salute e della sicurezza sul luogo di lavoro.
I fatti
La vicenda nasceva a seguito dell’infortunio accorso ad un lavoratore “irregolare” che, nel tentativo di rimuovere il pergolato antistante l’esercizio di ristorazione gestito dal “datore di lavoro”, attività che stava svolgendo su richiesta di quest’ultimo, cadeva dalla scala fornitagli e sulla quale si trovava.
Il datore di lavoro, imputato, era stato condannato in entrambi i gradi di giudizio per il reato di lesioni personali colpose (art. 590 c.p.) ai danni del lavoratore infortunato.
Il committente si difendeva rilevando, tra le altre, che era stata accertata dal Tribunale del lavoro di Siena l’insussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra lo stesso e l’infortunato e che ciò avrebbe “scardinato il costrutto accusatorio”.
Avverso la sentenza della Corte d’Appello di Firenze – che confermava quanto stabilito in primo grado dall’adito Tribunale di Siena – l’imputato proponeva ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione.
La decisione della Corte di Cassazione
La Corte di Cassazione, nel ritenere il ricorso inammissibile, ha reputato rilevante non la qualifica del soggetto, quanto, piuttosto, il fatto che il lavoratore, seppur “irregolare”, aveva svolto mansioni lavorative (i) su richiesta del “datore di lavoro”, (ii) in luogo da costui indicato e (iii) con i mezzi da lui messi a disposizione.
Secondo i giudici di legittimità, in base all’accertamento che il pergolato oggetto di rimozione era pertinente a un esercizio di ristorazione gestito dall’imputato e che l’incarico era stato da quest’ultimo affidato, il datore committente aveva assunto la gestione dei rischi relativi al campo di lavoro, collocato in quota. Inoltre, la scala utilizzata dal lavoratore “risultava sprovvista dei più basilari presidi di sicurezza, trattandosi di strumento utilizzato semplicemente appoggiandolo alla parete interessata”.
Per questi motivi, secondo la Cassazione ed ai fini degli obblighi di tutela della salute e della sicurezza, il ricorrente aveva di fatto assunto la posizione di datore di lavoro.
Come inquadrato dalla Corte di Appello, l’art. 2, comma 1, lett. a) del D.Lgs. n.81/2008, “definisce tale [“lavoratore”] la persona che, indipendentemente dalla tipologia contrattuale, svolge un’attività lavorativa nell’ambito dell’organizzazione di un datore di lavoro pubblico o privato con o senza retribuzione“. Alla luce di ciò, pertanto, la disciplina in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro deve intendersi applicabile anche in assenza di un regolare e formale contratto di assunzione.
Per questi motivi, la Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 30.000 in favore della Cassa delle ammende nonché alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità in favore della parte civile anch’esse liquidate in euro 30.000.
Altri insights correlati: