Cassazione. Recesso ammesso se l’impresa deve fare i conti con oneri non previsti all’assunzione.
Taglio compatibile con la finalità di un vantaggio per l’azienda.
Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo è legittimo quando sia finalizzato non a evitare perdite, bensì a conseguire un maggior profitto per l’impresa. Così ha deciso la Corte di cassazione con la sentenza 23620/2015.
Una lavoratrice, assunta come tecnico di laboratorio, ha impugnato in giudizio il licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimatole da una società operante nel comparto della sanità privata e convenzionata col servizio sanitario nazionale, per insussistenza delle ragioni poste a fondamento dello stesso, ovvero la soppressione della sua posizione a causa di una crisi aziendale con conseguente affidamento delle proprie mansioni ad altri colleghi, addetti al servizio di laboratorio di analisi e radiologia.
Il tribunale e la Corte d’appello hanno accolto il ricorso della lavoratrice, osservando che la società non ha provato la necessità di sopprimere la sua posizione e la crisi aziendale, ritenendo così assorbita la questione della legittimità dell’attribuzione ad altro personale delle mansioni alla stessa inizialmente affidate. La società ha presentato ricorso in Cassazione.
Nel frattempo, con un altro ricorso, la lavoratrice ha adito l’autorità giudiziaria, affinché venisse dichiarato illegittimo il secondo licenziamento comminatole dalla società per motivo discriminatorio e ritorsivo. Sia il tribunale che la Corte d’appello hanno accolto la tesi della lavoratrice, con argomentazioni analoghe a quelle sottese alle precedenti pronunce.
Anche in questa circostanza la società ha presentato ricorso in Cassazione, sostenendo in particolare che il giustificato motivo che l’ha portata a licenziare la dipendente era costituito dalla necessità, imposta dalla Regione, di assumere per il laboratorio di analisi un direttore laureato in biologia o in chimica e, conseguentemente, dalla sopravvenuta inutilità delle mansioni alla stessa affidate, a cui doveva aggiungersi l’impossibilità di ricollocarla in altri reparti stante le difficoltà economiche in cui questi versavano.
La Suprema corte, riuniti i due ricorsi, contrariamente a quanto affermato nella fase di merito, ha ritenuto fondate le ragioni formulate dalla società. I giudici della Cassazione sono partiti dall’assunto che la giurisprudenza, pur non essendo unanime nell’interpretare le ragioni tecniche, organizzative o produttive che devono sottendere, in base all’articolo 3 della legge 604/1966, a un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, converge all’unisono nel ritenere che tali ragioni debbono essere oggettivamente verificabili, ovvero non pretestuose, ricadendo sul datore di lavoro il relativo onere probatorio. Laddove, quindi, il datore di lavoro non assolva all’onere, l’esercizio del potere organizzativo deve considerarsi illegittimo per sviamento, ferma l’insindacabilità da parte del giudice delle decisioni imprenditoriali in base all’articolo 30, comma 1, della legge 183/2010 (“collegato lavoro”), che ha inteso tutelare più intensamente la libertà organizzativa dell’impresa.
Ciò detto, la Suprema corte ha osservato che il contratto di lavoro può essere sciolto non solo per contrarre la produzione, ma anche a seguito di una onerosità non prevista al momento della sua instaurazione e sorta in momento successivo. Tale onerosità, secondo la Cassazione, può anche consistere «in una valutazione dell’imprenditore che, in base all’andamento economico dell’impresa rilevato dopo la conclusione del contratto, ravvisi la possibilità di sostituire personale meno qualificato con dipendenti maggiormente dotati di conoscenze e di esperienze e quindi di attitudini produttive». Esercizio valutativo questo, sempre secondo la Suprema corte, non sindacabile nel merito dall’autorità giudiziaria, proprio alla luce dell’articolo 30 della legge 183/2010.
Sempre la Cassazione ha precisato che sfugge al controllo del giudice anche il fine, di arricchimento o di non impoverimento, perseguito dal datore di lavoro. Ciò in quanto «un aumento di profitto si traduce non, o non solo, in un vantaggio per il suo patrimonio individuale ma principalmente in un incremento degli utili dell’impresa, ossia in un beneficio per la comunità dei lavoratori».
Non da ultimo la Suprema corte ha osservato che i giudici di merito hanno errato nel non aver verificato, una volta rilevata l’assenza di un calo produttivo, l’attribuzione a un’altra dipendente, laureata in biologia, delle mansioni inizialmente assegnate alla lavoratrice licenziata, ritenendo tale incombenza superflua. La stessa Corte ha poi concluso che non può ritenersi estranea al controllo giudiziale della «reale operazione di riorganizzazione del personale e di ridistribuzione delle mansioni», l’accertamento delle difficoltà economiche dei reparti diversi da quello a cui era addetta la lavoratrice, disponendo che a detta verifica dovesse procedere il giudice di rinvio.
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