Con l’ordinanza n. 35527 del 19 dicembre 2023, la Corte di Cassazione si è espressa sul licenziamento di una lavoratrice madre disposto in conseguenza della cessazione dell’attività di impresa del datore di lavoro a seguito di dichiarazione di fallimento, decretandone la nullità e condannando il datore di lavoro alla reintegrazione della dipendente e al pagamento di un’indennità monetaria.
I fatti di causa
Nel caso di specie, la lavoratrice veniva licenziata dalla Curatela – poco dopo il rientro dal periodo di congedo di maternità obbligatorio e prima che il figlio compisse un anno di età – per l’intervenuta dichiarazione di fallimento della Cooperativa, sua datrice di lavoro.
La lavoratrice impugnava il licenziamento davanti al Tribunale di Arezzo rivendicando la nullità dello stesso in quanto intimato entro l’anno di nascita di suo figlio. Il Tribunale accoglieva la domanda della lavoratrice, dichiarava nullo il licenziamento e condannava la Curatela fallimentare alla reintegrazione della dipendente oltre al pagamento di un’indennità commisurata all’ultima retribuzione.
La Corte d’Appello di Firenze, a seguito del giudizio promosso dalla Curatela, confermava la pronuncia di prime cure.
La sentenza della Corte di Cassazione
La Corte di Cassazione, investita della causa, ha indagato il concetto di “cessazione dell’attività di impresa” previsto dall’ art. 54, co. 3, lett. b), D.Lgs. 151/2001 come una delle ipotesi di deroga al generale divieto di licenziamento delle lavoratrici madri entro l’anno di nascita del figlio.
In particolare, la Corte ha valutato l’ipotesi in cui l’esercizio provvisorio dell’attività d’impresa non sia disposto con la sentenza dichiarativa del fallimento, né successivamente autorizzato dal giudice delegato, in un contesto in cui dopo il fallimento “era stato dimostrato che le attività di liquidazione non erano iniziate e che, invece, erano in corso attività conservative in funzione di trasferimento a terzi (motivo per il quale era in corso una selezione del personale da conservare in servizio)”.
Dalla disamina della normativa fallimentare e di quella contenuta nell’art. 54, emerge, secondo la Corte, come la sentenza dichiarativa del fallimento implichi la cessazione formale dell’attività d’impresa (salvo l’esercizio provvisorio autorizzato), mentre il concetto di cessazione sotteso all’art. 54 abbia una portata diversa.
A parere della Corte, la deroga al divieto di licenziamento dettata dalla “cessazione dell’attività” opera solamente nei casi in cui sia esclusa ogni possibilità che comporti, in qualche modo, la continuazione o la persistenza dell’impresa, a qualsiasi titolo essa avvenga e ciò in ragione della preminente tutela dei diritti della lavoratrice madre rispetto ai diritti patrimoniali, posti a salvaguardia della par condicio creditorum (in sede fallimentare).
Nel richiamare precedenti pronunzie sul tema, la Corte, con la sentenza in commento, precisa che la deroga prevista dall’art. 54 debba essere contenuta entro “limiti precisi e circoscritti” e che “in considerazione del fatto che l’estinzione del rapporto si presenta come evento straordinario o necessitato” la stessa non possaessere interpretata in senso estensivo (Cass. N. 13861/2021). Pertanto, conclude la Corte, la deroga al divieto di licenziamento opera al ricorrere delle seguenti due condizioni: (i) che il datore di lavoro sia un’azienda e (ii) che vi sia cessazione dell’attività, con onere della prova a carico del datore di lavoro stesso.
Nel caso di specie, alla luce del fatto che l’attività della fallita Cooperativa non poteva dirsi cessata, il licenziamento della lavoratrice non è stato ritenuto conforme ai principi di diritto sopra richiamati e, per tale ragione, è stato quindi considerato illegittimo.