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Licenziamento illegittimo nelle aziende sotto i 15 dipendenti: l’indennità risarcitoria va cambiata

La Corte costituzionale, con sentenza n. 183 depositata il 22 luglio 2022, è intervenuta sul regime di tutele previste in caso di licenziamento illegittimo nelle aziende con meno di 15 dipendenti, invitando il Parlamento a modificare l’art. 9 del D.Lgs. 23/2015.

La questione sollevata

Il Tribunale ordinario di Roma, in funzione del giudice del lavoro, con ordinanza del 26 febbraio 2021, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale in ordine all’art. 9, comma 1, del D.Lgs. 23/2015. La disposizione è censurata limitatamente alle parole “ove il datore di lavoro non raggiunga i requisiti dimensionali di cui all’articolo 18, ottavo e nono comma, della L. n. 300 del 1970, … l’ammontare delle indennità e dell’importo previsti dall’articolo 3, comma 1, … è dimezzato e non può in ogni caso superare il limite di sei mensilità”.

In particolare, il Tribunale, chiamato decidere sul ricorso proposto da una lavoratrice licenziata per giustificato motivo oggettivo da un datore che non raggiungeva la soglia dei 15 dipendenti, ha ritenuto non dimostrata la sussistenza del giustificato motivo. E con riferimento all’indennità spettante alla lavoratrice ha rilevato che essa, dovendo essere individuata “nello stretto varco risultante fra il minimo di tre e il massimo di sei mensilità”, sarebbe inidonea “a soddisfare il test di adeguatezza e a garantire il riconoscimento di un’indennità personalizzata”.

Il Tribunale ha prospettato il contrasto della disposizione in esame con gli artt. 3, primo comma, 4, 35, primo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 24 della Carta sociale europea. A parere dello stesso, la distinzione delle tutele in base ai requisiti occupazionali del datore di lavoro è fondata “su un elemento che risulta esterno al rapporto di lavoro”. La tutela del diritto al lavoro, che si tradurrebbe nell’imposizione di limiti al potere di recesso del datore di lavoro, potrebbe essere anche affidata a un meccanismo monetario, a condizione che sia garantita la complessiva adeguatezza del risarcimento, prescritta anche dall’art. 24 della Carta sociale europea.

Il Tribunale è dell’avviso che “la previsione di un indennizzo così esiguo”, non superiore alle sei mensilità e senza neppure “l’alternativa della riassunzione”, non attua un adeguato contemperamento degli interessi in conflitto. L’art. 24 della Carta sociale europea, nell’imporre un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione nel caso di licenziamento intimato senza un valido motivo, vieterebbe in linea di principio la predeterminazione di un tetto massimo, che svincola l’indennità dal danno subìto e non presenta un carattere sufficientemente dissuasivo.

Ha anche osservato il Tribunale che “la “funzione compensativa” e “l’efficacia deterrente della tutela indennitaria” sarebbero compromesse (…) dalla previsione di un’indennità “ricompresa in un divario fra tre e sei mensilità”, che rappresenterebbe “una forma pressoché uniforme di tutela” e finirebbe per attribuire rilievo esclusivo al “numero degli occupati”. Si tratterebbe di “criterio trascurabile nell’ambito di quella che è l’attuale economia”, che non consentirebbe alcun adeguamento dell’importo riconosciuto alle peculiarità del caso concreto e, in particolare, alla “gravità della violazione”, al più significativo criterio delle dimensioni dell’impresa, legato anche ai “dati economico finanziari ricavabili dai bilanci”.

La decisione della Corte Costituzionale

La Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibile la rimessione del Tribunale di Roma circa l’indennità risarcitoria ex art. 9 del D.Lgs. 23/2015 in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo illegittimo nelle aziende sotto i 15 dipendenti. Tuttavia, ha riconosciuto che l’assetto delineato dal D.Lgs. n. 23/ 2015 è profondamente mutato rispetto a quello analizzato dalle sue più risalenti pronunce.

La reintegrazione, a parere della Consulta, è stata circoscritta entro ipotesi tassative per tutti i datori di lavoro e le dimensioni dell’impresa non assurgono a criterio distintivo tra l’applicazione della più incisiva tutela reale e la concessione del solo ristoro pecuniario.

A parere della Consulta, in un sistema imperniato sulla portata tendenzialmente generale della tutela monetaria, la specificità delle piccole realtà organizzative non può giustificare un sacrificio sproporzionato del diritto del lavoratore di conseguire un congruo ristoro del pregiudizio sofferto. Tant’è che l’esiguo divario tra un minimo di tre e un massimo di sei mensilità “vanifica l’esigenza di adeguarne l’importo alla specificità di ogni singola vicenda, nella prospettiva di un congruo ristoro e di un’efficace deterrenza, che consideri tutti i criteri rilevanti enucleati dalle pronunce di questa Corte e concorra a configurare il licenziamento come extrema ratio”.

Inoltre, la Consulta evidenzia che in un quadro dominato dall’incessante evoluzione della tecnologia e dalla trasformazione dei processi produttivi, al contenuto numero di occupati possono fare riscontro cospicui investimenti in capitali e un consistente volume di affari. Il criterio incentrato sul solo numero degli occupati non risponde all’esigenza di non gravare di costi sproporzionati realtà produttive e organizzative che siano effettivamente inidonee a sostenerli. Continua la Corte, precisando che il limite uniforme e invalicabile di sei mensilità opera in riferimento ad attività tra loro eterogenee, accomunate dal dato del numero dei dipendenti occupati, sprovvisto di per sé di una significativa valenza.

In conclusione, la Corte riconosce “l’effettiva sussistenza del vulnus denunciato dal rimettente (alias il Tribunale di Roma) e sottolinea “la necessità che l’ordinamento si doti di rimedi adeguati per i licenziamenti illegittimi intimati dai datori di lavoro che hanno in comune il dato numerico dei dipendenti”.

Tuttavia, la Corte precisa che a questo “vulnus” non può dare rimedio essa stessa, rientrando “nella prioritaria valutazione del legislatore la scelta dei mezzi più congrui per conseguire un fine costituzionalmente necessario, nel contesto di “una normativa di importanza essenziale” (…), per la sua connessione con i diritti che riguardano la persona del lavoratore, scelta che proietta i suoi effetti sul sistema economico complessivamente inteso”.

Nel concludere, la Corte dichiara di non potersi esimere “dal segnalare che un ulteriore protrarsi dell’inerzia legislativa non sarebbe tollerabile e la indurrebbe, ove nuovamente investita, a provvedere direttamente, nonostante le difficoltà qui descritte (…)”.

Si tratta, in sostanza, di un chiaro invito al legislatore a rivedere l’art. 9 del D.Lgs. 23/2015, in mancanza del quale la Consulta si vedrà costretta ad intervenire.

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