Il datore di lavoro non può licenziare immediatamente un lavoratore affetto da patologia che genera disabilità subito dopo il superamento del periodo di comporto, ma deve adottare ragionevoli accomodamenti per la conservazione del posto di lavoro, nel rispetto dei principi di buona fede e correttezza. Tra questi principi, rientra anche l’attività di informare il dipendente della possibilità di fruire di una aspettativa non retribuita prima del superamento del periodo di comporto. Così ha deciso la Corte di appello di Trento con la sentenza n. 8 del 6 luglio 2023.
I fatti di causa
La pronuncia trae origine da una sentenza del Tribunale di Rovereto (n. 54 del 2022) che aveva ritenuto legittimo il licenziamento comminato ad un lavoratore affetto da diabete di tipo 2, che ha comportato l’amputazione di un dito, a termine del periodo massimo di assenza previsto dal CCNL. Il Tribunale ha ritenuto il licenziamento legittimo sulla base del fatto che la disabilità del lavoratore non fosse stata certificata prima della cessazione del rapporto e che non ci fosse alcun obbligo in capo al datore di informare il dipendente prima del superamento del periodo di comporto.
Avverso la sentenza del Tribunale di Rovereto, il lavoratore è ricorso dinanzi alla Corte d’appello.
La decisione della Corte d’appello
La Corte d’appello è giunta ad una diversa conclusione, articolando il proprio ragionamento partendo dalla verifica della sussistenza di una discriminazione indiretta nei confronti del lavoratore. La Corte ha richiamato, preliminarmente, l’orientamento della Corte di giustizia UE, secondo cui la disabilità è una «limitazione di capacità risultante da durature menomazioni fisiche, mentali o psichiche» idonea a incidere sulla piena partecipazione della persona alla vita professionale, in situazione di parità con gli altri soggetti, la cui definizione è, in realtà, molto ampia e prescinde dal riconoscimento formale di un’invalidità «intesa come riduzione – accertata da organi a ciò preposti – della capacità lavorativa». Inoltre, secondo la Corte, è necessario operare una distinzione tra malattia ed handicap, che si sostanzia nella «permanenza della patologia e dalla lunga durata».
Nel caso specifico, la sentenza ha evidenziato come l’azienda fosse stata periodicamente informata dal lavoratore circa il suo stato di malattia e che proprio in tale contesto avrebbe potuto intraprendere «idonee iniziative di tutela». La Corte ha sostenuto che il fatto che il CCNL applicato prevedesse l’aspettativa non retribuita solo su richiesta dell’interessato, non esclude il dovere del datore di lavorodi assumere un ruolo attivo. Il datore di lavoro dovrebbe infatti informare il dipendente dell’approcciarsi della scadenza del periodo di comporto e della possibilità per lo stesso di richiedere l’aspettativa come forma di accomodamento. Questa azione sarebbe in linea con i principi di correttezza e buona fede del rapporto di lavoro, anche se formalmente il dipendente non aveva ancora raggiunto lo status di invalidità secondo la legge.
La Corte ha quindi dichiarato il licenziamento nullo in quanto discriminatorio, poiché l’azienda non ha dimostrato di essersi impegnata adeguatamente per fornire ragionevoli accomodamenti al dipendente. L’azienda non ha altresì dimostrato che tali misure avrebbero causato gravi problemi organizzativi o finanziari, né che avrebbero comportato oneri sproporzionati. Di conseguenza, il dipendente è stato reintegrato sul posto di lavoro, con il riconoscimento di un’indennità risarcitoria pari alla retribuzione globale di fatto tra la data del licenziamento e quella della effettiva reintegrazione.
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