Le principali novità in materia di lavoro a tempo parziale riguardano il tema della variazione temporale della prestazione lavorativa, da sempre oggetto dell’attenzione (e di ricorrenti interventi) del legislatore.
Pur avendo, infatti, le parti l’obbligo di specificare nel contratto la durata della prestazione lavorativa e la collocazione temporale dell’orario con riferimento al giorno, alla settimana, al mese e all’anno, l’articolo 46 del Dlgs 276 del 2003 aveva introdotto la possibilità per le stesse di modificare la collocazione temporale della prestazione tramite le cosiddette clausole flessibili e/o di variarne in aumento la durata in corso di rapporto.
Quest’ultima assumeva nozioni diverse a seconda della tipologia di contratto: lavoro supplementare nel part-time orizzontale, clausole elastiche nel part-time verticale e misto. L’effettuazione di prestazioni di lavoro supplementare, così come l’apposizione al contratto di clausole elastiche e flessibili richiedeva il consenso del lavoratore.
Al riguardo, il nuovo decreto attuativo del Jobs act, da un lato, elimina la previsione da parte dei Ccnl delle specifiche causali che legittimano l’uso di tali clausole, ampliandone la possibilità di utilizzo. Dall’altro, detta una serie di previsioni che trovano applicazione nel caso in cui la contrattazione collettiva non contenga una specifica disciplina del lavoro supplementare e delle clausole elastiche e flessibili. In particolare, il decreto prevede un numero massimo di ore di lavoro supplementare pari al 25% delle ore di lavoro settimanali concordate e il diritto del lavoratore a una maggiorazione retributiva pari al 15% della retribuzione oraria globale di fatto.
In materia di clausole elastiche (con cui oggi, a fronte dell’abolizione del riferimento alle «clausole flessibili», sembra doversi intendere sia la variazione della collocazione temporale della prestazione lavorativa sia la variazione in aumento della sua durata), si prevede – sempre nell’eventualità in cui il contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro non contenga una specifica disciplina – la possibilità per le parti di modificare la collocazione temporale della prestazione o di variarne in aumento la durata, purché ciò avvenga per iscritto e davanti alle commissioni di certificazione previste dall’articolo 76 del decreto 276/2003.
In ogni caso, la misura massima dell’aumento della prestazione lavorativa non può eccedere il limite del 25% della normale prestazione annua a tempo parziale, e le modifiche all’orario di lavoro comportano il diritto del lavoratore a una maggiorazione retributiva pari al 15% della retribuzione oraria.
Viene confermata, poi, la previsione introdotta dall’articolo 1, comma 20, della legge 92/2012 secondo la quale a fronte dell’abolizione del cosiddetto diritto di ripensamento del lavoratore, i contratti collettivi possono stabilire condizioni e modalità che consentano al lavoratore di richiedere l’eliminazione (o, quanto meno, la modifica) delle clausole elastiche. Con l’obiettivo di tutelare la “sicurezza esistenziale” del lavoratore, viene altresì confermata la possibilità per il dipendente che si trovi in determinate condizioni di revocare il consenso già prestato all’apposizione nel contratto della clausola elastica.
La prima serie di tali condizioni è riferita a particolari motivi di salute, quali patologie oncologiche o cronico-degenerative, del lavoratore o dei suoi familiari più stretti, cui vanno aggiunte l’assistenza a una persona convivente con totale e permanente inabilità lavorativa, a un figlio convivente portatore di handicap, nonché la cura di un figlio convivente di età non superiore a tredici anni; la seconda, invece, rinvia all’articolo 10 dello statuto dei lavoratori che tutela la posizione dei lavoratori studenti, anche universitari. Ben più generica la formulazione della norma che consente al lavoratore di rifiutare lo svolgimento di lavoro supplementare in presenza di «comprovate esigenze lavorative, di salute, familiari o di formazione professionale».
Del tutto nuova, infine, la previsione secondo cui il dipendente può chiedere, per una sola volta, in luogo del congedo parentale (o entro i limiti del congedo ancora spettante) la trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale, purché con una riduzione d’orario non superiore al 50 per cento. In questo caso, il datore di lavoro è tenuto a dar corso alla trasformazione entro quindici giorni dalla richiesta.
Fonte:
Il Sole 24 Ore
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