Con l’ordinanza n. 12244 del 9 maggio 2023, la Suprema Corte di Cassazione ha affermato che, in caso di rifiuto di trasformazione del rapporto da full-time a part-time, il dipendente può essere legittimamente licenziato se il recesso non è intimato a causa del diniego opposto, ma in ragione della impossibilità di utilizzo della prestazione a tempo pieno.
Il caso di specie
A seguito della cessione di un ramo d’azienda (costituito dal supermercato cui era addetta una lavoratrice) i tre soci della società cessionaria avevano deciso di prestare attività lavorativa presso il punto vendita: pertanto, la forza lavoro risultava sovradimensionata. Al fine di fronteggiare la situazione, veniva chiesto ai tre dipendenti full-time, inclusa la lavoratrice, la disponibilità di ridurre l’orario di lavoro.
La dipendente si rifiutava di trasformare il proprio rapporto da full-time a part-time e, conseguentemente, la Società, vista l’impossibilità di utilizzare la prestazione a tempo pieno, intimava alla lavoratrice il licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
La dipendente impugnava il recesso intimatole, eccependo, in via principale, il carattere ritorsivo del licenziamento e, in subordine, l’illegittimità dello stesso.
Il Tribunale dichiarava il licenziamento illegittimo, ma non ritorsivo e condannava la Società a riassumere la ricorrente oppure a corrisponderle un’indennità risarcitoria pari a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto ai sensi dell’art. 8, legge 604/66.
Nella seconda fase del medesimo giudizio di primo grado, il Tribunale respingeva sia l’opposizione principale della lavoratrice, la quale insisteva per la declaratoria di nullità del licenziamento, sia l’opposizione incidentale della Società, volta a far accertare la legittimità del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
La Corte d’Appello, adita esclusivamente dalla lavoratrice, confermava la decisione assunta dal Tribunale, respingendo il reclamo promosso dalla dipendente.
Avverso tale pronuncia, la lavoratrice proponeva ricorso in Cassazione, censurando la sentenza resa dalla Corte d’Appello per aver negato la natura ritorsiva del licenziamento.
La decisione della Suprema Corte
La Cassazione rileva, preliminarmente, che l’art. 8, comma 1, del D.lgs. 81/2015 afferma che “il rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale, o viceversa, non costituisce giustificato motivo di licenziamento”.
Secondo i Giudici di legittimità, detta norma se, da un lato, esclude che il rifiuto di trasformazione del rapporto in part-time possa costituire di per sé giustificato motivo di licenziamento, dall’altro lato non preclude la facoltà di recesso per motivo oggettivo in caso di rifiuto del part-time, comportando – utilizzando le parole della Corte – “una rimodulazione del giustificato motivo oggettivo e dell’onere della prova” posto a carico della parte datoriale.
In tal caso, precisano gli Ermellini, ai fini della legittimità del licenziamento, occorre che sussistano e che siano dimostrate dal datore di lavoro:
- le effettive esigenze economiche ed organizzative tali da non consentire il mantenimento della prestazione a tempo pieno, ma solo con l’orario ridotto;
- l’avvenuta proposta al dipendente o ai dipendenti di trasformazione del rapporto di lavoro a tempo parziale e il rifiuto dei medesimi;
- l’esistenza di un nesso causale tra le esigenze di riduzione dell’orario e il licenziamento.
La previsione di cui all’articolo 8, comma 1, del sopra richiamato non va, dunque, intesa in senso assoluto, come un divieto categorico: si tratta, piuttosto, di un divieto da leggersi in maniera strettamente letterale, che non impedisce di intimare un licenziamento per impossibilità di utilizzare una prestazione a tempo pieno associata al rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto in un part-time.
In presenza di un simile rifiuto, in altre parole, quest’ultimo diventa «una componente del più ampio onere della prova» gravante sul datore di lavoro che ha intimato un licenziamento per giustificato motivo oggettivo per difficoltà economiche e organizzative.
Nonostante ciò, come precisato dalla stessa Corte di Cassazione, non può escludersi che il licenziamento rappresenti, nei fatti, una ritorsione rispetto al rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto di lavoro con riduzione d’orario: come noto, in tal caso il licenziamento sarebbe nullo, ma la nullità deve essere suffragata dalla prova – a carico del lavoratore – che l’intento ritorsivo abbia avuto efficacia determinante esclusiva del recesso, anche rispetto ad altri elementi che possono risultare rilevanti per configurare una giusta causa o un giustificato motivo.
In particolare, con riferimento al caso in esame, i giudici di legittimità hanno concluso che “la Corte d’appello, premesso che il tribunale ha dichiarato illegittimo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo per mancata prova delle ragioni addotte (e che la relativa statuizione non è stata impugnata dalla società), ha escluso che il licenziamento fosse sorretto da un motivo di ritorsivo unico e determinante nei confronti della attuale ricorrente […]. Non vi è quindi spazio per ritenete integrata la violazione delle norme di diritto denunciate e neppure ricorre il vizio di motivazione apparente atteso che la decisione d’appello non presenta alcuna delle ipotesi di “anomalia motivazionale” denunciabile in cassazione”, con conseguente rigetto del ricorso promosso in Cassazione dalla lavoratrice.
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