Il Tribunale di Venezia, con sentenza n. 494/2021, ha dichiarato che l’azienda, che subisce un attacco informatico e sia costretta a pagare un riscatto per recuperare i dati sottratti, può licenziare il dipendente che ha navigato ripetutamente su siti non sicuri per fini privati mettendo a rischio la sicurezza interna.
I fatti di causa
Un lavoratore, assunto da una società esercente attività di agenzia marittima, veniva licenziato per giusta causa, a seguito di procedimento disciplinare legittimamente esperito, per avere utilizzato impropriamente il personal computer aziendale.
In particolare, gli addebiti mossi dalla società nei confronti del dipendente, erano duplici:
- aver svolto attività extralavorativa durante l’orario di lavoro, consultando la posta elettronica personale, visualizzando foto nonché effettuando ripetute e prolungate navigazioni in internet su siti web di informazioni, prenotazioni viaggi e spettacoli ed addirittura su siti pornografici. Ciò in violazione delle prescrizioni del Regolamento adottato in azienda, mettendo a rischio la sicurezza del sistema informatico nonché sottraendo del tempo alla prestazione lavorativa (addirittura in giornate in cui aveva chiesto l’autorizzazione ad attività lavorativa straordinaria);
- avere, sempre durante l’orario di lavoro, predisposto e trasmesso a terzi dichiarazioni a nome dell’azienda abusando della carta intesta e del timbro della stessa.
Il dipendente impugnava il recesso aziendale in quanto ritenuto ritorsivo e discriminatorio, avente la sola finalità di estrometterlo in quanto RSA e ritenuto, dunque, un “dipendente scomodo”. Il dipendente, inoltre, sosteneva che le condotte contestate non erano a lui attribuibili posto che il computer assegnatogli era sfornito di password e, pertanto, qualsiasi soggetto avrebbe potuto accedervi.
La società datrice di lavoro si costitutiva in giudizio, respingendo le pretese del dipendente e sottolineando il carattere del tutto causale della scoperta dei dati, poiché emersi all’esito di necessarie verifiche effettuate a seguito di un hackeraggio ai propri sistemi informatici e della diffusione del virus ramsomware.
La decisione del Tribunale
Il Tribunale di Venezia – confermando la decisione del giudice della fase sommaria del procedimento – ha dichiarato sussistente la giusta causa di recesso e, conseguentemente, legittimo il licenziamento.
Il Giudice adito ha, innanzitutto, evidenziato che gli addebiti mossi nei confronti del dipendente erano stati acquisiti dalla società in conformità con quanto disposto dall’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori. Ai sensi del citato articolo, infatti, il datore di lavoro può legittimamente acquisire informazioni dagli strumenti aziendali assegnati ai dipendenti ed utilizzarli per tutti i fini connessi al rapporto di lavoro (ivi inclusi i fini disciplinari). Ciò, a condizione che agli stessi sia stata data adeguata informazione circa le modalità di utilizzo di tali strumenti e di effettuazione dei controlli, nel rispetto di quanto disposto dal Codice della Privacy. E la società aveva adottato un Regolamento sull’utilizzo degli strumenti forniti in dotazione, il quale fin dalla sua adozione, era stato affisso in bacheca nonché pubblicato in una apposita cartella all’interno del server accessibile a tutti i dipendenti.
Il Giudice ha poi osservato che, anche prescindendo dalla effettiva adozione del regolamento (oggetto di censura da parte del lavoratore), ciò che rileva nel caso di specie è il numeroso e perpetuo utilizzo per evidenti (e non contestati) fini personali del computer, tale per cui la valenza disciplinare dei fatti addebitati non può non sussistere.
Infine, il Giudice ha respinto la censura del dipendente in merito alla mancata copertura di password personale sul computer. A dire del Giudice adito, infatti, il suo utilizzo improprio era senza dubbio riconducibile al dipendente in questione posto che lo stesso aveva: visitato la propria casella personale, prenotato viaggi a suo nome, usatto chiavette Usb personali, visitato social network a lui riconducili ecc.
Alla luce di tutto quanto sopra, a parere del Tribunale adito, gli addebiti ascritti al dipendente e legittimamente acquisiti dall’azienda, si sono concretizzati nei fatti e sono stati di una gravità tale da legittimarne il licenziamento in tronco.
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