Con sentenza 24 novembre 2016, n. 24023, la sezione lavoro della Corte di Cassazione è tornata a occuparsi delle ipotesi in cui i comportamenti privati del dipendente possano compromettere il vincolo fiduciario giustificando il licenziamento. La Corte, in particolare, ha avuto modo di esprimersi su un caso di licenziamento per giusta causa, determinatosi ai danni del dipendente di una banca con mansioni di ‘operatore di sportello a contatto con il pubblico’, licenziato per essere stato egli condannato, in sede penale, a pena detentiva e pecuniaria per spaccio e detenzione di rilevante quantità di sostante stupefacenti. Impugnato il licenziamento per via giudiziaria, il funzionario della banca aveva visto accogliere le proprie istanze, sia in primo sia in secondo grado. Nello specifico, entrambi i giudici di merito avevano ritenuto il licenziamento illegittimo, sussistendo insindacabilità sul comportamento extra-lavorativo del dipendente, non potendosi ad egli imputare alcun tipo di biasimo per le attività esercitate al di fuori del contesto lavorativo. Avverso la sentenza, parte resistente proponeva ricorso per Cassazione, adducendo la falsa applicazione dell’art. 2119 cod. civ., regolante la giusta causa nel rapporto di lavoro subordinato, consistente in “qualunque causa” che non consenta la prosecuzione del rapporto di lavoro. Il Supremo Collegio, cassando interamente la decisione dei giudici di merito, accoglieva il ricorso datoriale, fornendo un’interpretazione quasi didascalica ma esaustiva del concetto di ‘giusta causa’, dandone una chiave di lettura adattata alle particolarità del caso di specie. La Cassazione ha in particolare affermato che pur non potendosi imporre al lavoratore un determinato stile di vita, è anche vero che in capo allo stesso grava un obbligo accessorio e costante di non porre in essere “comportamenti tali da ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro” e tali da “comprometterne il rapporto fiduciario”. Indi per cui, è onere del Giudice, caso per caso, valutare “da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore” e “dall’altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta”. Di tal guisa, nel caso in esame, seppur il fatto illecito oggetto d’accusa non abbia connessioni esplicite col rapporto di lavoro, da esso, come correttamente argomentato dal ricorrente, è possibile dedurre implicitamente “l’idoneità a minarne ugualmente le fondamenta”. Aderendo a siffatto ragionamento, la Cassazione, ha rinviato per il riesame la causa alla Corte d’appello di Bari, che dovrà decidere attenendosi al principio per il quale le condotte che abbiano un riflesso “anche soltanto potenziale ma oggettivo, sulla funzionalità del rapporto compromettendo le aspettative d’un futuro puntuale adempimento dell’obbligazione lavorativa”, possono giustificare l’irrogazione della sanzione espulsiva del licenziamento, “per contrarietà alle norme dell’etica e del vivere civile comuni”.