Con sentenza 15 ottobre 2018, n. 25711, la Corte di Cassazione si è espressa nuovamente su quali siano i requisiti (e in che misura siano rilevanti) perché un rapporto qualificato dalle parti come autonomo nel contratto, possa essere riqualificato in rapporto di lavoro subordinato.
La pronuncia prende le mosse dal ricorso presentato presso il Tribunale di Milano da otto prestatori d’opera che richiedavano l’accertamento dell’illegittimità dei contratti di varia tipologia (e.g. contratto di collaborazione, contratto a progetto) succedutisi nel tempo con il medesimo datore di lavoro e, dunque, l’accertamento della sussistenza di rapporti di lavoro subordinato in capo ad essi.
I giudizi di merito si risolvevano entrambi con il rigetto delle doglianze dei lavoratori, avendo il Giudice Unico, prima, e la Corte d’Appello, poi, ritenuto legittimi i contratti stipulati tra le parti e, soprattutto, non sufficienti gli elementi addotti dai lavoratori a dimostrare la sussistenza di un vincolo di subordinazione tra le parti.
Uno dei soccombenti ricorreva in cassazione, denunciando la ritenuta violazione e falsa applicazione di legge da parte dei giudici di merito, per non aver essi ritenuto provato il rapporto di lavoro subordinato, pur in presenza di numerosi indici di subordinazione, tra i quali: il rispetto dell’orario di lavoro, le modalità di calcolo e corresponsione della retribuzione, l’assenza di rischio imprenditoriale in capo ai prestatori, le modalità di controllo della prestazione lavorativa.
A tal proposito, la Corte di Cassazione ha rilevato come tali doglianze risultassero inammissibili e, comunque, infondate.
In effetti, i giudici di legittimità hanno ribadito come sia loro precluso un nuovo esame nel merito e di come spetti al giudice di merito valutare se gli elementi e gli indici fattuali allegati siano idonei a provare la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato al di là della tipologia contrattuale prescelta dalle parti al momento dell’instaurazione del rapporto.
Allo stesso tempo hanno tuttavia sottolineato, sul solco di unanime e consolidato orientamento, che il tipo contrattuale (ossia il “nomen juris”) ‹‹adoperato dai contraenti, sfornito di un valore assoluto e dirimente, non può essere del tutto pretermesso e rileva come elemento sussidiario, quando si riveli difficile tracciare il discrimine tra l’autonomia e la discriminazione››.
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