Con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea della direttiva 2023/970 che introduce nuove tutele per i lavoratori e nuovi obblighi per i datori di lavoro in materia di parità salariale e trasparenza “gli Stati membri dell’Unione Europea hanno l’obbligo di adeguare le loro legislazioni locali ispirandosi favorendo (e anche imponendo) la trasparenza salariale anche nel rapporto di lavoro privato. Cosa comporterà in concreto, si può valutare su due livelli. Il primo è ‘che cosa cambierà nella forma’. A cambiare saranno in primo luogo gli obblighi informativi a carico dei datori di lavoro. Il motivo dell’introduzione di questi inediti obblighi di trasparenza nel settore privato (dove la riservatezza della contrattazione individuale rappresenta ancora spesso un fattore critico) risiede nel fatto che la disparità salariale di genere è un fenomeno piuttosto visibile”. Così, con Adnkronos/Labitalia, Alberto De Luca, partner di De Luca&Partners, studio legale specializzato in diritto del lavoro.
De Luca infatti ricorda che “la media europea, infatti, registra una disparità retributiva di genere a favore dei lavoratori maschi pari a circa il 13%. C’è da dire, e il dato può sembrare un buon dato di partenza, che l’Italia in questo ambito rientra tra i Paesi più virtuosi, registrando un divario attorno al 5%. Quello che cambierà invece ‘nella sostanza’ è più difficile dirlo”, spiega.
Secondo l’esperto, “non saranno infatti solo gli equilibri salariali uomo-donna a cambiare ma l’intero sistema di trasparenza interna dei livelli retributivi dei colleghi e compagni di lavoro”.
Ma quando scatteranno gli effetti della direttiva nel nostro Paese? “La Direttiva è entrata in vigore il 6 giugno scorso -spiega De Luca- e gli Stati Membri dovranno adeguarsi tre anni, in particolare entro il 7 giugno 2026, pena la procedura di infrazione agli Stati che non si saranno adeguati. Per adeguarsi alle previsioni contenute nella Direttiva, ciascuno Stato Membro (inclusa l’Italia) dovrà adottare tutte le misure legislative necessarie a garantire la trasparenza retributiva anche nel settore privato”, spiega.
“Per quanto riguarda il ‘come’, la Direttiva -sottolinea l’esperto- richiede che siano introdotti obblighi normativi che impongano ai datori di lavoro di fornire informazioni adeguate sul salario e sui livelli retributivi sia ai candidati ad una posizione lavorativa che ai lavoratori già in forza. In questo senso, dispone la Direttiva, dovrà essere garantito ai candidati ad una posizione lavorativa il diritto di ricevere tutte le informazioni sui livelli salariali relativi ad una specifica mansione (se del caso, sulle pertinenti disposizioni del contratto collettivo applicate dal datore di lavoro in relazione alla posizione), mentre tutti i lavoratori e le lavoratrici dovranno poter accedere alle informazioni sui livelli salariali individuali e quelli medi ripartiti per genere, per categorie di personale o per mansioni analoghe”.
Secondo De Luca, “dovrà essere poi impedito al datore di lavoro di chiedere ai candidati informazioni sulle retribuzioni percepite negli attuali o nei precedenti rapporti di lavoro. Per garantire il funzionamento dei meccanismi di trasparenza introdotti, dovrà inoltre essere previsto un obbligo per i datori di lavoro di informare annualmente tutti i lavoratori e le lavoratrici del diritto di ricevere le informazioni in questione, le quali – in ogni caso – dovranno essere obbligatoriamente comunicate anche all’autorità designata, dai quei datori di lavoro che occupino più di 100 dipendenti”, aggiunge.
“Le ultime citate informazioni -sottolinea l’esperto- dovranno essere anche fornite ai rappresentanti dei lavoratori e delle lavoratrici, agli ispettorati del lavoro e agli organismi per la parità, i quali avranno anche diritto di chiedere dettagli ulteriori in merito a qualsiasi dato fornito, comprese spiegazioni su eventuali differenze retributive di genere. Tornando alle tempistiche, entro il 7 giugno 2031 gli Stati Membri dovranno dare indicazioni alla Commissione in merito allo stato di applicazione della Direttiva e al suo impatto pratico. Poi, entro il 7 giugno 2033, la Commissione presenterà al Parlamento europeo e al Consiglio una relazione sull’attuazione”, rimarca.
E a regime, in applicazione della Direttiva, “la normativa -spiega De Luca- dovrà prevedere l’obbligo per i datori di lavoro di consentire, mediante l’adozione di appropriati meccanismi, a tutti i lavoratori e a tutte le lavoratrici di accedere alle informazioni sui livelli salariali individuali e quelli medi ripartiti per genere. I datori di lavoro dovranno anche predisporre una descrizione dei criteri (neutrali) alla base della determinazione della retribuzione e dell’avanzamento di carriera e dovranno fornire ai lavoratori che lo richiederanno tutte le informazioni sul livello retributivo”, sottolinea.
Secondo De Luca, “gli Stati membri dovranno provvedere affinché i datori di lavoro forniscano le informazioni relative alla loro organizzazione, in particolare sul divario retributivo di genere (nelle componenti complementari o variabili) sia nella assegnazione che nella quantificazione, descrivendo il numero di lavoratori di sesso femminile e di sesso maschile in ogni quartile retributivo. È inoltre previsto che i datori di lavoro con almeno 250 lavoratori e lavoratrici in forza forniscano, entro il 7 giugno 2027 e successivamente ogni anno, queste informazioni relative all’anno civile precedente”, sottolinea.
“Medesimi obblighi -spiega l’esperto- sono previsti per i datori di lavoro che hanno tra le 150 e le 249 risorse umane, che dovranno fornire le informazioni entro il 7 giugno 2027 e successivamente ogni tre anni, mentre i datori di lavoro che hanno tra i 100 e i 149 lavoratori e lavoratrici in forza avranno tempo fino al 7 giugno 2031 e successivamente ogni tre anni”.
Quindi quali saranno gli effetti possibili sulla legislazione in materia di lavoro nel nostro Paese? “Gli interventi di attuazione di quanto disposto dalla Direttiva richiederanno senz’altro -spiega De Luca- alcuni interventi di adattamento su norme già esistenti (prevedendo tempi e modi di effettuazione delle comunicazioni previste ad esempio agli organismi di controllo come, ad esempio, l’Ispettorato nazionale del lavoro o i relativi uffici locali). Anche la contrattazione collettiva nazionale -aggiunge- ne sarà prevedibilmente interessata, introducendo ad esempio meccanismi specifici di comunicazione ovvero di consultazione con gli interlocutori sindacali (aziendali e non), alla stregua di quanto già avviene, ad esempio, per i dati occupazionali e di andamento dell’impresa”.
Secondo De Luca, “nell’ottica di incidere sull’attuazione di quanto previsto, inoltre, ci si può anche attendere che sia disposto a livello di legislazione nazionale un meccanismo di controllo e/o sanzionatorio per le violazioni degli obblighi previsti. In merito a questo ultimo aspetto, come previsto anche dalle premesse della Direttiva, un ruolo importante sarà riservato agli organismi di parità, in termini sia di sorveglianza che di poteri sanzionatori. In proposito, la facoltà di poter agire in nome e per conto dei lavoratori, già oggi concessa in alcuni casi agli organismi di parità, agevolerebbe l’efficacia e la sostenibilità economica della difesa dei diritti per i soggetti interessati”, sottolinea.
E per De Luca “la portata della normativa di nuova introduzione si aggiungerà alle protezioni già esistenti, potendo persino incidere sulla loro portata. Il pensiero va in primo luogo al Codice delle pari opportunità (ndr. D.Lgs. n. 198/2006), che già racchiude delle norme sulla parità della retribuzione. La nuova normativa inciderà, ampliandoli, sugli oneri a carico del datore di lavoro in caso di denuncia di comportamenti di discriminazione salariale”.
“In proposito va detto -spiega- che il Codice delle pari opportunità prevede già un particolare meccanismo di ripartizione dell’onere della prova in caso di comportamenti discriminatori, prevedendo, a carico del denunziante un onere della prova attenuato e non ‘pieno’, secondo le regole generali del processo civile, restando poi in capo al datore di lavoro l’onere di provare l’insussistenza della discriminazione. Il regime garantistico di questo onere, già significativo, verrebbe ulteriormente ampliato, facendo la Direttiva espressamente riferimento -aggiunge ancora De Luca- ad una vera e propria ‘inversione dell’onere della prova’ e dovendo con ogni probabilità il datore di lavoro dimostrare altresì di aver correttamente e tempestivamente adempiuto a tutti gli obblighi normativi di riferimento”.
Per l’esperto “difficile, invece, sarà pensare che possano emergere nuove voci di danno dalla violazione di quanto disposto in attuazione della normativa in questione, rimanendo risarcibile esclusivamente il danno, nelle sue diverse forme, effettivamente sofferto dalla parte lesa. Infine, l’arduo compito della legislazione attuativa sarà quello di dare risposta a una serie di interrogativi di non trascurabile impatto ‘pratico’: cosa accadrà quando non vi sia la possibilità di avere un parametro di paragone reale? Si pensi al caso di lavorazioni assegnate a un solo o una sola dipendente. Potranno utilizzarsi dati statistici o occorrerà fare riferimento alla situazione in tempo reale? Cosa comporterà l’attuazione di politiche retributive molto diversificate? Come potranno i datori di lavoro difendersi dal rischio (per non dire la certezza) di rendere le politiche retributive note alla concorrenza? Interrogativi questi che dovranno preventivamente essere considerati dal legislatore in un’ottica di rendere gestibile e sicuro l’impatto di quella che sembra una vera e propria piccola rivoluzione normativa sulla parità di genere”, conclude De Luca.