L’augmentation du contentieux et du montant économique des transactions, s’accompagnant d’un scénario qui est devenu plus instable et incertain, pourrait bien, pour ce motif, décourager les employeurs d’embaucher. Voici donc – pour Vittorio Der Luca, managing partner du cabinet De Luca & Partners – certains des effets susceptibles de se manifester suite à un récent jugement de la Cour Constitutionnelle. Cette dernière a en effet déclaré inconstitutionnelle la partie du contrat « à protection croissante » où il était établi que, en cas de licenciement illégitime de l’employé embauché après 2015, l’employeur était condamné au paiement d’une indemnisation égale à deux mois de salaire par année de service, quoi qu’il en soit comprise dans une fourchette qui allait d’un minimum de quatre à un maximum de 24 mensualités. « L’intention du législateur était de réduire le pouvoir discrétionnaire et le caractère aléatoire des sentences, laissant aux juges uniquement l’évaluation de l’éventuelle illégitimité du licenciement, explique Me De Luca. Pour le spécialiste, ce jugement s’oriente, en revanche, dans une autre direction : « Selon la Cour, ne peut être en effet enlevée au juge la possibilité de fixer l’indemnité due pour laquelle l’organe jugeant pourra tenir compte de facteurs comme le nombre de salariés, les dimensions de l’activité économique, le comportement et les conditions des parties ». Des critères qui, pour De Luca, sont subjectifs et dénaturent la raison sur laquelle s’est basé le législateur de 2015 pour introduire le contrat à « protection croissante ». À cela s’est ajouté le décret Dignité introduit par le nouveau gouvernement qui a élevé le seuil minimum, qui est passé de quatre à six mois de salaire, et celui maximum de 24 à 36 mois. D’après De Luca, cela pourrait avoir un effet potentiellement explosif, compte tenu du fait que le juge peut décider d’appliquer une indemnité d’un montant allant de six à trente-six mois de salaire, indépendamment de l’ancienneté de service. Ainsi, « on est revenu à un cadre normatif incertain, ayant exclu la prévisibilité du cout du licenciement qui pourrait, en dernier ressort, décourager les entreprises d’embaucher ». « L’augmentation du contentieux, avec des travailleurs plus enclins à se pourvoir en justice, et du montant économique des transactions » sont d’autres effets attendus.

La Corte di Appello di Torino, con sentenza n. 26 depositata il giorno 11 gennaio 2019 e pubblicata il successivo 4 febbraio, ha accolto parzialmente l’appello proposto da 5 ciclofattorini (cd. “riders) di una nota società tedesca di consegna di cibo a domicilio, avverso la sentenza del Tribunale di Torino (778/2018) che aveva negato sia la natura subordinata dei rapporti di lavoro intercorsi sia la loro riconducibilità alle collaborazioni etero-organizzate di cui all’art. 2 del D.Lgs. 81/2015.

 

Ricordiamo che, a distanza di pochi mesi della pronuncia del Tribunale di Torino, la giurisprudenza di merito si era pronunciata su un caso analogo, rigettando il ricorso di un ex-rider che rivendicava la natura subordinata del rapporto di lavoro intercorso con un’altra società del settore della distribuzione (Tribunale di Milano 10 settembre 2018 n. 2853).

 

La decisione del Tribunale di Torino

 

In primo grado i riders avevano, tra le altre, rivendicato: (i) la corresponsione delle somme a loro dovute a titolo di differenze retributive e competenze di fine rapporto in forza dell’inquadramento nel V livello del CCNL Logistica o nel VI livello del CCNL del Terziario; (ii) il ripristino del rapporto di lavoro ed il pagamento delle retribuzioni maturate dalla data del licenziamento a quello dell’effettiva ricostituzione, previo accertamento della nullità, inefficaci o illegittimità del recesso.

 

La sentenza del Tribunale di Torino ha, in sostanza, rappresentato la prima decisione in merito alla qualificazione del rapporto di lavoro dei riders nell’era della cd. “gig economy”.

 

Secondo il Tribunale la loro prestazione lavorativa non può essere ricompresa nell’alveo del lavoro subordinato di cui all’art. 2094 cod. civ. Ciò in considerazione del:

  • la volontà delle parti che avevano sottoscritto contratti di collaborazione coordinata e continuativa;
  • la circostanza che i riders non avevano l’obbligo di effettuare la prestazione lavorativa e il presunto datore di lavoro non aveva l’obbligo di riceverla;
  • l’insussistenza dell’esercizio di un potere disciplinare da parte del presunto datore di lavoro nei confronti dei riders. Questi ultimi potevano, dopo aver confermato la loro disponibilità a svolgere la prestazione, revocarla ovvero non presentarsi a renderla senza che venisse loro irrogata alcuna sanzione disciplinare.

 

Il Tribunale di Torino non ha accolto neppure la domanda, proposta in subordine dai riders e relativa all’applicazione dell’art. 2 del D.Lgs. n. 81/2015, secondo il quale “a far data dal 1° gennaio 2016 si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro”.

 

A parere del Tribunale detta norma è applicabile solo nel caso in cui il lavoratore sia sottoposto al potere direttivo e organizzativo del datore di lavoro, non essendo sufficiente, a tal fine, che il potere in questione si estrinsechi solo con riferimento ai tempi e al luogo di lavoro.

 

La decisione della Corte di Appello di Torino

La Corte di Appello di Torino, alla luce dell’istruttoria svolta nel corso del giudizio di primo grado, ha ritenuto:

  • da un lato, che la collaborazione resa dai riders non poteva ricondursi allo schema del lavoro subordinato in quanto gli stessi erano liberi di dare o meno la propria disponibilità per i vari turni (slot) offerti dall’azienda. Mancava, in sostanza, il requisito dell’obbligatorietà della prestazione;
  • dall’altro, di non condividere quanto affermato dal Tribunale di Torino in merito alla non applicabilità nel caso in esame dell’art. 2 del D.Lgs. 81/2015.

 

Secondo la Corte d’Appello le collaborazioni di cui al predetto articolo rappresentano un terzo genere di rapporto di lavoro “che si viene a porre tra il rapporto di lavoro subordinato di cui all’articolo 2094 c.c. e la collaborazione come prevista dall’articolo 409 n. 3 c.p.c., evidentemente per garantire una maggiore tutela alle nuove fattispecie di lavoro che, a seguito dell’evoluzione e della relativa introduzione sempre più accelerata delle recenti tecnologie, si stanno sviluppando” (cd. collaborazione etero-organizzate).

 

Le collaborazioni etero-organizzate, infatti, pur senza “sconfinare” nell’esercizio del potere gerarchico (tipico della subordinazione) si caratterizzano per un’effettiva integrazione funzionale del lavoratore nell’organizzazione produttiva del committente. Proprio l’organizzazione costituisce un elemento che va oltre la semplice coordinazione di cui all’art. 409 cod. proc. civ., in cui il lavoratore pur coordinandosi con il committente organizza autonomamente la propria attività lavorativa.

 

Alla luce di quanto sopra, la Corte d’Appello ha ritenuto che il rapporto di lavoro dei riders debba ricondursi alle collaborazioni etero-organizzate di cui all’art. 2 del D.Lgs. n. 81/2015. Ciò in quanto: (i) i riders lavoravano sulla base di una “turnistica” stabilita dalla committente; (ii) le zone di partenza erano determinate dalla committente che comunicava ai riders, tramite l’applicativo per lo smartphone, gli indirizzi ove di volta in volta avrebbero dovuto effettuare la consegna; (iii) i tempi di consegna erano predeterminati (30 minuti dall’orario indicato per il ritiro del cibo); (iv) i riders avevano svolto attività in favore della committente in via continuativa.

 

Dalla predetta classificazione discende, secondo la Corte d’Appello, l’estensione ai riders delle tutele previste per i rapporti di lavoro subordinato (in particolare le norme in materia di sicurezza e igiene, retribuzione diretta e differita, limiti di orario, ferie e previdenza). In altri termini, il rapporto di lavoro, seppur resta tecnicamente autonomo, è assoggettato alla disciplina del lavoro subordinato.

 

Di conseguenza, la Corte d’Appello:

  • ha riconosciuto ai riders, con riferimento ai giorni e alle ore di lavoro effettivamente prestate, il diritto a ottenere il trattamento retributivo previsto per i lavoratori dipendenti e
  • ha ritenuto, non essendo la società convenuta iscritta ad alcuna associazione imprenditoriale che abbia sottoscritto contratti collettivi, che debba essere riconosciuta ai riders – in considerazione dell’attività e delle mansioni svolte – la retribuzione stabilita per i dipendenti del V livello del CCNL logistica trasporto merci, ove, risultano inquadrati i fattorini addetti alla presa e alla consegna.

 

La Corte d’Appello ha, comunque, escluso l’estensione ai riders della normativa sui licenziamenti tenuto conto, dal un lato, del mancato riconoscimento di un rapporto di lavoro subordinato e dall’altro, del fatto che la collaborazione tra i riders e la società non è stata oggetto di alcuna interruzione essendo i rapporti di collaborazione cessati alla loro naturale scadenza.

 

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Par ordonnance n°1499 du 21 janvier 2019, la Cour de Cassation a confirmé le principe de droit selon lequel, en matière de licenciement pour motif objectif justifié, la tentative de repêchage doit être réputée avoir été prouvée par l’employeur qui, en alternative au licenciement, propose à l’employé licencié de modifier ses horaires de travail.

Les faits

Une travailleuse employée au guichet et à la billetterie par une société opérant dans le secteur des services d’assurance et touristiques avait été licenciée pour motif objectif justifié en raison de la cession du service dans lequel elle était employée. En alternative au licenciement, la société lui avait proposé de transformer la relation de travail de temps plein en temps partiel, ce qu’elle avait toutefois refusé.

La travailleuse a donc saisi le Tribunal du travail territorialement compétent afin qu’il déclare illégitime le licenciement lui ayant été intimé avec toutes les conséquences de la loi qui en découleraient. Comme fondement de sa requête, la travailleuse a allégué le fait que l’offre de modification des horaires de travail ne pouvait constituer une tentative valable de repêchage, la société ayant par ailleurs engagé une nouvelle ressource à temps plein un an après le licenciement, en lui confiant notamment des tâches qu’elle accomplissait elle-même auparavant.

Le Tribunal a accueilli la demande de la travailleuse, mais sa décision a été modifiée par la Cour d’appel d’Ancône, saisie par la société.

En particulier, la Cour d’appel a déclaré le licenciement légitime en partant du principe que :

  • la société avait complètement prouvé la cession réelle des activités de la zone guichet et billetterie dont l’employée était en charge ;
  • la proposition de transformer la relation de travail, formulée à l’intention de la travailleuse peu avant l’avis de licenciement et rejetée par celle-ci, constituait la preuve de la tentative de « repêchage » ;
  • aucune embauche n’a eu lieu en remplacement de la travailleuse, car la nouvelle employée en question avait remplacé une autre salariée.

 

La travailleuse a donc formé un pourvoi en cassation contre la sentence de la Cour d’appel.

 

La décision de la Cour

La Cour de Cassation saisie a confirmé la décision de la Cour avec compétence territoriale, considérant la proposition de transformation de la relation de travail de temps plein en temps partiel suffisante pour prouver la tentative de repêchage de la part de l’employeur.

La Cour de Cassation a également souligné qu’elle ne pouvait même pas attribuer de valeur à l’embauche d’une nouvelle ressource, car cette embauche était la conséquence de la cessation d’une autre relation de travail, qui a pris fin à un moment postérieur à la clôture de la relation de la travailleuse demanderesse.

Conclusions

En substance, il résulte du jugement commenté que la tentative de repêchage doit être réputée avoir été prouvée par l’employeur qui, en alternative au licenciement, propose à l’employé licencié de modifier ses horaires de travail.

 

 

Le sujet de la répartition du fardeau de la preuve dans le cadre d’un pourvoi en cas de licenciement oral revient à l’ordre du jour. Par arrêt 3822 du 8 février 2019, la Cour de Cassation a en effet réaffirmé, confirmant son orientation sur ce point, qu’il relève toujours du travailleur de fournir la preuve (évidemment pas toujours facile) du licenciement oral attaqué, pour éviter ainsi le risque que la rupture de contrat soit imputée à d’autres manifestations de volonté (démission ou rupture consensuelle pour faits concluants).

Ainsi, la preuve de l’interruption des prestations de la part du travailleur n’est pas en soi une circonstance suffisante pour fournir la preuve du fait constituant la requête.

L’affaire en question puise ses origines dans le pourvoi de la rupture de contrat de travail, que le salarié estimait imputable à un licenciement oral et que l’employeur considérait, en revanche, dû à une démission.

Le Juge de premier degré a initialement accueilli le pourvoi du travailleur avec décision confirmée en Cour d’appel, reconnaissant que la rupture du contrat de travail était incontestée, l’employé s’était, par conséquent, acquitté correctement de son obligation de fournir la preuve de son éviction, compte tenu de l’absence de preuve de la démission contestée de la part de la société.

Appelée à exprimer un jugement de légitimité sur le sujet, la Cour de Cassation a relevé un déficit dans le parcours argumentatif des juges de fond, alors qu’ils ont considéré suffisante aux fins de l’accueil favorable de la requête du travailleur la rupture de contrat déclarée, estimée incontestée entre les parties, même si l’une l’imputait réciproquement à la manifestation de volonté de l’autre.

Bien que donnant acte de l’existence d’une orientation plus protectrice qui fait supporter au travailleur, dans le licenciement oral, seulement l’obligation de prouver la rupture de contrat (Cassation 10651/2005, 7614/2005 ; 5918/2005 ; 22852/2004 ; 2414/2004), la Cour s’est alignée sur une autre orientation, plus récente mais protégeant moins le travailleur (31501/2018) selon laquelle, en cas de licenciement oral déduit, le travailleur doit fournir la preuve de son « éviction » du contrat de travail opérée par son employeur, qui est un concept plus spécifique par rapport à la simple « rupture du contrat de travail » et qui présuppose un acte de l’employeur visant consciemment à expulser le travailleur. Et ce, parce que la cessation définitive de l’exécution des prestations dérivant du contrat de travail n’est pas en soi seulement apte à fournir la preuve du licenciement, s’agissant d’une circonstance ayant en fait une signification polyvalente, car elle peut constituer l’effet de multiples manifestations de volonté (licenciement, démission ou résiliation consensuelle).

La Cour conclut, en cassant avec renvoi l’arrêt attaqué que, au cas où subsisterait une incertitude probatoire au sujet de la circonstance constituant la base de la rupture de contrat, le régime du fardeau de la preuve prévu par l’article 2697 du code civil (selon lequel « qui veut faire valoir un droit en jugement doit prouver les faits qui en constituent la fondation ») devra trouver application et, par conséquent, le travailleur n’ayant pas prouvé le fait constitutif de sa requête la verra…

 

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Par arrêt n° 436/2019 déposé le 10 janvier dernier, la Cassation a confirmé que, sur la base du principe constitutionnel de liberté d’initiative économique (art. 41 de la constitution), le choix d’un entrepreneur de supprimer un poste ne peut pas être remis en cause.

La Cour s’est ainsi prononcée sur le cas d’une dirigeante ayant des fonctions de directeur des ressources humaines, de l’administration et des finances, licenciée pour suppression de poste, avec attribution simultanée de ces fonctions à l’administrateur délégué. Un choix motivé par la nécessité de réduire les charges. Il faut préciser que le recours avait été présenté, inter alia, en dénonçant la totale inexpérience de l’administrateur délégué, car jeune diplômée et fille du président de la société. En allant dans le sens du jugement défavorable des juges de fond, tous deux ayant en effet rejeté le recours, la dirigeante a présenté un recours en cassation dénonçant la violation et l’application erronée de la loi.

Bien que rejetant toute requête de réexamen dans le fond, la Cour a confirmé que l’arrêt saisi était exempte de vices, mettant en évidence le choix sans appel de la part de l’entreprise de mettre en œuvre un plan visant à épargner des coûts. Confirmant ainsi certains prononcés précédents même récents (entre autres, Cassation Civile, Section du Travail, n° 12668/2016 et n° 3628/2012), la Cour a réaffirmé le principe de droit selon lequel le licenciement d’un dirigeant d’entreprise peut être fondé sur des motifs objectifs reposant sur des nécessités de réorganisation, qui peuvent ne pas coïncider avec l’impossibilité de la poursuite du contrat ou avec une situation de crise susceptible de rendre particulièrement difficile sa poursuite, à partir du moment où que le principe de loyauté et de bonne foi – qui constitue le paramètre de mesure de la légitimité du licenciement aussi d’un dirigeant – doit être coordonné avec la liberté d’initiative économique, telle que garantie par l’art. 41 de la constitution.

Pour conclure, de l’avis de la Cassation, la Cour d’Appel a relevé, à juste titre, qu’une fois établie l’effectivité du remplacement de la dirigeante par l’administrateur délégué, ainsi que…

 

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