Con ordinanza n. 770, del 12 gennaio 2023, la Corte di Cassazione si è espressa in merito alla legittimità del licenziamento per giusta causa intimato ad una lavoratrice che, nell’ambito della propria prestazione lavorativa, non si era attenuta alle modalità di esecuzione previste da apposita policy aziendale.
Secondo la Suprema Corte, in tema di licenziamento per giusta causa, il rifiuto del lavoratore di adempiere la prestazione secondo le modalità indicate dal datore di lavoro è idoneo giustificare il licenziamento per giusta causa, a meno che tale rifiuto non sia improntato a buona fede.
I fatti di causa
Nel caso esaminato dalla ordinanza in commento, la lavoratrice – addetta alla cassa di un supermercato – era stata licenziata (per giusta causa) per aver consentito che tre clienti oltrepassassero la barriera della cassa lasciando i prodotti nei carrelli e per aver omesso di invitarli a depositare la merce sul nastro trasportatore come previsto dal regolamento aziendale.
Alla lavoratrice veniva inoltre contestato di aver omesso di eseguire un controllo diretto dei prodotti presenti nel carrello, limitandosi a registrare sul misuratore fiscale le quantità di ciascuna tipologia di prodotto indicata dagli stessi clienti.
Il prezzo pagato dai tre clienti risultava poi essere, a seguito del successivo intervento dei carabinieri chiamati dall’addetto alla vigilanza, notevolmente inferiore rispetto alla quantità di merce che era presente nel carrello.
Il giudice di prime cure riteneva legittimo il licenziamento intimato alla lavoratrice, ritenendo che la stessa avesse posto in essere una condotta negligente.
La Corte d’Appello di Roma ribaltava la sentenza emessa in primo grado, e, a seguito del ricorso proposto dalla Società, la questione veniva posta all’attenzione della Corte di Cassazione.
L’ordinanza della Corte di Cassazione
Gli Ermellini, nel confermare l’illegittimità del licenziamento irrogato alla lavoratrice, si soffermano dettagliatamente ad analizzare la disciplina di cui all’art. 1460 del codice civile relativa all’eccezione di inadempimento, in questo caso, nell’ambito di un contratto di lavoro.
La Corte ricorda che sul tema dell’inadempimento di una delle parti nei contratti di lavoro, precedenti pronunce avevano ritenuto che, l’inadempimento datoriale non legittima in via automatica il rifiuto del lavoratore di eseguire la prestazione lavorativa.
Vertendosi in ipotesi di contratto a prestazioni corrispettive, trova infatti applicazione il disposto dell’articolo 1460 c.c., comma 2, in base al quale la parte adempiente può rifiutarsi di eseguire la prestazione a proprio carico solo ove tale rifiuto, avuto riguardo alle circostanze concrete, non risulti contrario alla buona fede (Cass. n. 434 del 2019; Cass. n. 14138 del 2018; Cass. n. 11408 del 2018).
Il giudice deve quindi procedere ad una valutazione comparativa degli opposti adempimenti avuto riguardo anche allo loro proporzionalità rispetto alla funzione economico-sociale del contratto e alla loro rispettiva incidenza sull’equilibrio sinallagmatico, sulle posizioni delle parti e sugli interessi delle stesse, con la conseguenza che ove l’inadempimento di una parte non sia grave oppure abbia scarsa importanza, in relazione all’interesse dell’altra parte, il rifiuto di quest’ultima di adempiere la propria obbligazione non potrà considerarsi in buona fede e, quindi, non sarà giustificato ai sensi dell’articolo 1460 c.c., comma 2 (Cass. n. 11430 del 2006).
In tema di licenziamento per giusta causa, il rifiuto del lavoratore di adempiere la prestazione secondo le modalità indicate dal datore di lavoro è idoneo, ove non improntato a buona fede, a far venir meno la fiducia nel futuro adempimento e a giustificare pertanto il recesso, in quanto l’inottemperanza ai provvedimenti datoriali, pur illegittimi, deve essere valutata, sotto il profilo sanzionatorio, alla luce del disposto dell’articolo 1460 c.c., comma 2, secondo il quale la parte adempiente può rifiutarsi di eseguire la prestazione a proprio carico solo ove tale rifiuto non risulti contrario alla buona fede, avuto riguardo alle circostanze concrete (v. Cass. n. 12777 del 2019).
Nel caso di specie, secondo gli Ermellini, la Corte d’Appello di Roma si sarebbe scrupolosamente attenuta ai principi sopra richiamati ritenendo che:
- la parte datoriale fosse venuta meno all’obbligo di protezione della dipendente (imposto in capo ad ogni datore di lavoro dall’art. 2087 c.c.) rispetto ai comportamenti minacciosi da parte dei tre clienti, o, comunque, così percepiti dalla cassiera secondo un atteggiamento di buona fede (tanto da avere indotto la stessa a chiedere l’intervento della guardia giurata) e come tali idonei ad esporre la stessa a pericolo per la propria incolumità;
- l’inadempimento posto in essere dalla dipendente, non come rifiuto di svolgere la prestazione bensì come esecuzione della stessa in maniera non conforme alle modalità prescritte dalla società (obbligo dei clienti di riporre tutta la merce sul nastro trasportatore), dovesse giudicarsi legittimo e giustificato, nella prospettiva del citato articolo 1460 c.c., comma 2.
Alla luce dei principi sopra esposti, la Corte ha confermato l’illegittimità del licenziamento irrogato alla lavoratrice con applicazione della tutela reintegratoria “attenuata” prevista dall’art. 18, co.4, L. 300/1970 (applicabile al caso di specie).
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