L’infezione virale contratta sul luogo di lavoro costituisce evento patologico coperto dall’INAIL e la prova del nesso eziologico può essere fornita in giudizio anche mediante presunzioni semplici
Con l’ordinanza 10 ottobre 2022, n. 29435, la Suprema Corte, in riforma della sentenza della Corte d’Appello di Palermo, ha fornito una lettura diversa circa il tema dell’assetto probatorio nella fattispecie oggetto di contenzioso.
I fatti di causa
Il caso sottoposto alla Suprema Corte trae origine dal ricorso proposto dinanzi al Tribunale di Agrigento in primo grado e dinanzi alla Corte d’Appello di Palermo in secondo grado da un infermiere professionale impiegato presso una RSA, al fine di vedersi riconoscere la copertura INAIL e quindi l’indennizzo in rendita o in capitale ai sensi del d.p.r. 1124/1965 in ragione dell’asserita contrazione dell’epatite C in occasione di servizio, assumendo che ciò fosse dipeso dalla plausibile e prolungata esposizione ai relativi fattori patogeni.
La Corte territoriale, confermando la statuizione del giudice di primo grado, aveva inizialmente respinto la richiesta del lavoratore in quanto, prendendo le mosse dalla possibile origine plurifattoriale della malattia, riteneva che la prova della causa di lavoro e della speciale nocività dell’ambiente di lavoro gravante sul lavoratore non fosse stata raggiunta, aggiungendo che la valutazione da compiere non riguardava “il nesso causale dipendente dagli effetti patologici dell’infortunio professionale che si sia sicuramente verificato, vertendo la questione sulla certa individuazione del fatto all’origine della malattia”.
Aggiungeva la Corte di merito che il ricorrente stesso non aveva memoria di eventi specifici avvenuti durante il lavoro, quali punture accidentali, non bastando, ai fini del riconoscimento delle tutele invocate, l’avere ordinariamente medicato e trattato pazienti epatopatici, in quanto, la valenza dimostrativa di ciò, oltre a non poter ricorrere a favore della parte che aveva reso tali dichiarazioni, era in più neutralizzata dall’accertamento svolto in altra causa in ordine ad una pregressa infezione da virus epatite B, circostanza quest’ultima che avrebbe imposto «la prova rigorosa dell’evento infettante in occasione di lavoro».
La Corte aggiungeva infine che non poteva essere utile alla prova richiesta il ”verbale di visita della Commissione medica ospedaliera“ formato in sede di procedimento per l’indennizzo ai sensi della L. 210/1992 in quanto quest’ultimo “esprime un giudizio (di derivazione professionale della malattia e di esposizione a rischio) senza tuttavia rendere noti gli elementi fattuali su cui è basato”.
I principi richiamati dalla Corte di Cassazione
Con l’ordinanza in commento, la Cassazione, in riforma della sentenza della Corte d’Appello di Palermo, richiama un indirizzo risalente e mai contraddetto secondo cui «nell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, costituisce causa violenta anche l’azione di fattori microbici o virali che, penetrando nell’organismo umano, ne determinino l’alterazione dell’equilibrio anatomo – fisiologico, sempreché tale azione, pur se i suoi effetti si manifestino dopo un certo tempo, sia in rapporto con lo svolgimento dell’attività lavorativa, anche in difetto di una specifica causa violenta alla base dell’infezione» con l’aggiunta che «la relativa dimostrazione può essere fornita in giudizio anche mediante presunzioni semplici» (C. Cass., sez. lav. n. 7306/2000, C. Cass., sez. lav. n. 20941/2004; C. Cass., sez. lav. n. 6899/2004).
Nel caso di specie dunque, la Corte d’Appello, con una motivazione non sempre coerente e lineare, in cui veniva richiamata la necessità di una «certa individuazione del fatto origine della malattia», si sarebbe disallineata dall’orientamento sopra richiamato, collocando il punto di caduta ultimo del proprio ragionamento nella conclusione per cui si sarebbe infine dovuta dare, anche alla luce della pregressa Epatite B occorsa al lavoratore, «la prova rigorosa dell’evento infettante in occasione di lavoro».
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