Nel licenziamento per motivo oggettivo, pur non potendosi pregiudizialmente negare che l’obbligo di repêchage possa incontrare un limite nel fatto che il licenziando non abbia la capacità professionale richiesta per occupare il diverso posto di lavoro, anche inferiore, ciò deve risultare da circostanze oggettivamente riscontrabili e provate dal datore di lavoro
Con l’ordinanza n. 31561 del 13 novembre 2023 la Corte di Cassazione ha affermato, coerentemente con i principi dalla stessa già sanciti in materia, che in caso di impugnazione del licenziamento per soppressione della posizione lavorativa, laddove nel periodo immediatamente successivo al recesso il datore di lavoro abbia assunto nuovi dipendenti, ancorché per lo svolgimento di mansioni diverse, il giudice è tenuto a verificare se il lavoratore licenziato fosse o meno in grado di espletare le suddette mansioni, anche se di livello contrattuale inferiore, ai fini dell’eventuale riassegnazione alle stesse in un’ottica di conservazione dell’occupazione.
Tale verifica deve essere effettuata non in astratto ma in concreto, tenuto conto delle puntuali allegazioni formulate al riguardo dall’azienda nonché dei livelli di inquadramento come disciplinati dalla contrattazione collettiva applicabile.
L’onere di repêchage: brevi cenni giurisprudenziali
Come noto, l’obbligo di repêchage consiste nell’obbligo del datore di lavoro di verificare, prima di procedere ad un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, se sia possibile (nei limiti che esamineremo nel prosieguo) impiegare il lavoratore in altre mansioni.
Tale onere è frutto dell’elaborazione giurisprudenziale e mira, attraverso un bilanciamento tra l’interesse del datore di lavoro a realizzare un’organizzazione efficiente e quello del lavoratore a conservare il posto di lavoro, a garantire che il licenziamento costituisca l’extrema ratio, considerata anche la rilevanza attribuita al lavoro dalla nostra Costituzione (Cass. civ., sez. lav., 3 dicembre 2019, n. 31520; Cass. civ., sez. lav., 13 giugno 2012, n. 9656).
Per costante giurisprudenza, l’obbligo di repêchage non sussiste con riferimento ai lavoratori inquadrati come dirigenti, in quanto incompatibile con la posizione dirigenziale caratterizzata da un regime di libera recedibilità (tra le altre, Cass. civ, sez. lav., 6 dicembre 2022, n. 36955 ; Cass. civ., sez. lav., 11 febbraio 2013, n. 3175).
Nel vigore del precedente testo dell’art. 2103 c.c. (che consentiva lo ius variandi orizzontale con riferimento “a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte“), l’estensione dell’obbligo di repêchage era stato inizialmente circoscritto alle sole mansioni equivalenti. Successivamente, alla luce di alcune eccezioni al divieto di demansionamento previste in casi particolari da disposizioni normative (fra cui l’art. 42 del D.lgs 9 aprile 2008, n. 81 per l’ipotesi del lavoratore giudicato inidoneo alla mansione specifica), si era sviluppato un nuovo orientamento giurisprudenziale secondo cui, in mancanza di mansioni equivalenti, il datore di lavoro, prima del procedere al licenziamento, era tenuto a prospettare al lavoratore, al fine di ottenere il suo eventuale consenso, l’assegnazione a mansioni inferiori, purché rientranti nel bagaglio di competenze di quest’ultimo, non potendosi imporre al datore di lavoro i costi connessi ad una formazione professionale (tra le altre, Cass. civ., sez. lav., 3 dicembre 2019, n. 31520, cit., relativamente ad una fattispecie a cui era applicabile ratione temporis il precedente testo dell’art. 2103 c.c.; Cass. civ., sez. lav., 23 ottobre 2013, n. 24037).
In ogni caso, la giurisprudenza è sempre stata, come lo è tuttora, univoca nel ritenere che l’obbligo di repêchage sia riferito soltanto all’assetto organizzativo già esistente, non comportando per il datore di lavoro l’onere di creare ad hoc una posizione lavorativa alternativa.
Il nuovo testo dell’art. 2103 c.c. (così come riformato dal D.Lgs 15 giugno 2015, n. 81) consente lo ius variandi orizzontale in mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale delle ultime effettivamente svolte (comma 1). Consente inoltre di assegnare mansioni riconducibili al livello di inquadramento inferiore, purché rientranti nella medesima categoria legale, in ipotesi di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incida sulla posizione del lavoratore (comma 2).
E’ chiaro che, come evidenziato dalla giurisprudenza, “l’aggravamento dell’onere gravante sul datore di lavoro in ordine all’impossibilità di repêchage anche rispetto a mansioni inferiori, determinato dall’entrata in vigore dell’art. 2103 c.c., non può tuttavia ritenersi assoluto”: l’obbligo dovrebbe essere limitato alle “mansioni libere, che non necessitino cioè di idonea formazione“, in quanto “l’obbligo di attribuire al lavoratore mansioni che necessitino di adeguata formazione significherebbe infatti imporre al datore di lavoro un ulteriore costo economico” (Trib. Roma 24 luglio 2017).
Dunque, non vengono in rilievo tutte le mansioni inferiori dell’organigramma aziendale, ma solo quelle compatibili con le competenze professionali del lavoratore o quelle che siano state effettivamente già svolte, contestualmente o in precedenza (Cass. 31521/2019).
In definitiva, la giurisprudenza maggioritaria ha evitato di attribuire al terzo comma dell’art. 2103 c.c., secondo il quale il mutamento di mansioni è accompagnato, ove necessario, dall’assolvimento dell’obbligo formativo, una valenza estensiva dell’obbligo di repêchage fino al punto da obbligare il datore di lavoro a provvedere alla formazione necessaria affinché il lavoratore possa essere utilmente impiegato in altre mansioni al fine di evitare il licenziamento.
Sul punto, si segnala una recente sentenza del Tribunale di Lecco che si è discostata parzialmente da tale orientamento, avendo ritenuto che, pur non configurandosi un generale obbligo di formare professionalmente il lavoratore, nell’ipotesi in cui la sua professionalità sia diventata obsoleta a causa di una riorganizzazione aziendale, il datore di lavoro, in applicazione del principio di correttezza e buona fede, debba anche valutare l’impossibilità o quanto meno la antieconomicità della riqualificazione professionale prima di procedere al licenziamento (Tribunale Lecco 31 ottobre 2022).
Nell’ambito di tale evoluzione normativa e giurisprudenziale, l’onere probatorio rimane a carico del datore di lavoro. Il datore di lavoro dovrà pertanto allegare tutta la documentazione e gli elementi di fatto necessari a corroborare la propria tesi e, dunque, a dimostrare che altre posizioni di lavoro non fossero comunque presenti o che, a fronte di una proposta di diverso collocamento, sia stato il lavoratore stesso ad aver rinunciato alle nuove mansioni appartenenti o meno alla medesima categoria legale inziale.
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