Con sentenza n. 450 del 13 giugno 2023 la Corte di Appello di Messina ha stabilito che se il datore di lavoro ha omesso di svolgere la formazione dei dipendenti sui rischi specifici legati alle mansioni cui sono addetti, i giorni di malattia riconducibili alla nocività delle condizioni di lavoro non sono computabili ai fini del comporto, neppure se il datore ha adottato le misure necessarie a proteggere la salute dei lavoratori in adempimento al generale obbligo di tutelarne l’integrità psicofisica in base all’articolo 2087 del codice civile.

I fatti di causa

I fatti di causa traggono origine dalla controversia promossa da una fisioterapista, licenziata per superamento del periodo massimo di malattia. La lavoratrice ha impugnato il licenziamento, asserendo che dal periodo di comporto dovevano essere sottratti 57 giorni in cui l’assenza era riconducibile alla patologia del tunnel carpale sviluppata a causa del sollevamento dei pazienti immobilizzati (mansioni cui era addetta).

La domanda della lavoratrice veniva accolta nella fase sommaria e successivamente rigettata dal Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto sul rilievo che, benché le assenze fossero imputabili a uno stato di malattia riconducibile alle mansioni, il datore di lavoro aveva adempiuto all’obbligo di salvaguardia della salute secondo l’articolo 2087 del Codice civile.

La lavoratrice ha dunque impugnato la decisione del Tribunale dinanzi la Corte di Appello, che ha ribaltato la sentenza del Tribunale di primo grado.

La decisione della Corte

La Corte d’Appello ha affermato che l’omissione da parte del datore dell’obbligo di formazione impedisce di conteggiare i giorni di assenza nel periodo di comporto.

Ad avviso della Corte, non è neppure sufficiente che il datore abbia assolto all’obbligo di informazione sui rischi generali e su quelli specifici legati alle singole attività dei lavoratori, in quanto la formazione ha una finalità ulteriore, che si integra con gli obblighi informativi.

In tale contesto, la Corte attribuisce rilevanza alle diverse obbligazioni di “formazione” e “informazione” chiarendone le differenze. La formazione è il processo educativo necessario ad acquisire le competenze per lo svolgimento in sicurezza delle mansioni, identificando, riducendo e gestendo i rischi. L’informazione, invece, è il complesso delle attività dirette a fornire conoscenze utili alla gestione, riduzione e gestione dei rischi. Secondo la Corte, “la prima costituisce la cornice indispensabile per rendere utile la seconda”.

La formazione deve, peraltro, rispondere a specifici canoni di adeguatezza, richiedendosi al datore di assicurare che i lavoratori ricevano un insegnamento ritagliato sugli specifici rischi insiti nelle mansioni di ciascuno. In tale contesto, l’assolvimento dell’obbligo di informazione non surroga dunque quello dell’obbligo di formazione.

Nel caso di specie, infatti, ad avviso della Corte, è altamente probabile che la lavoratrice, se fosse stata adeguatamente formata, non sarebbe andata incontro all’intervento, o avrebbe quantomeno avuto un decorso più breve o meno accidentato, riducendo così il numero di giornate di malattia e rientrando nel limite complessivo di 180 giorni nel triennio.

Quanto sopra, ha determinato la violazione dell’art. 2087 cod. civ., circostanza che ha avuto efficacia causale rispetto all’insorgenza della patologia nei termini e nei tempi accertati.

In questo contesto, il mancato adempimento datoriale dell’obbligo di formazione adeguata sui rischi per la salute impedisce di tener conto dei giorni di assenza nel conteggio del periodo massimo di malattia.

Conseguentemente, ad avviso del Collegio, nel caso di specie, il licenziamento irrogato dal datore conteggiando tali assenze è risultato illegittimo, con conseguente reintegrazione della lavoratrice sul posto di lavoro e risarcimento del danno, ai sensi dell’articolo 18 della legge 300/1970.z

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Con la recente sentenza n. 20284 del 14 luglio 2023, la Corte di Cassazione ha statuito che, anche se non specificamente previste nel codice disciplinare, costituiscono ragione valida di licenziamento le violazioni da parte del lavoratore dei doveri fondamentali posti alla base del rapporto di lavoro.

I fatti di causa

Un dipendente con mansioni di venditore di I livello viene licenziato dalla società datrice di lavoro stante il costante mancato raggiungimento dei target di produzione periodicamente stabiliti dall’azienda.

Il dipendente impugna il licenziamento dinanzi il Tribunale, il quale – confrontando i risultati raggiunti dal dipendente con gli obiettivi previsti dalla programmazione aziendale – conferma l’inequivocabile scarsa resa produttiva del lavoratore. Pertanto, il Giudice adito dichiara legittimo il licenziamento, qualificandolo come licenziamento per giustificato motivo soggettivo.

La sentenza viene impugnata dal lavoratore dinanzi la Corte di Appello di Roma dove il dipendente insiste   sulla illegittimità del licenziamento stante la mancata affissione del codice disciplinare in aziendale.

Al riguardo, la Corte, confermando la sentenza di primo grado, statuisce che ai fini della configurazione del licenziamento è irrilevante la mancata affissione del codice disciplinare in azienda essendo contestato al lavoratore l’inadempimento per negligenza e imperizia degli obblighi derivanti dal contratto di lavoro e che il licenziamento era fondato sulla scarsa resa produttiva del dipendente conseguente al costante mancato rispetto dei programmi di lavoro in precedenza stabiliti.

Per la Corte, inoltre, ai fini della valutazione di gravità della condotta inadempiente, devono essere considerati anche i precedenti disciplinari che connotano la recidiva del lavoratore nella medesima mancanza.

Il lavoratore, dunque, impugna la sentenza della Corte d’Appello in cassazione.

La decisione della Corte di Cassazione

Investita della questione, la Corte di Cassazione conferma le pronunce dei giudici di merito relativamente alla legittimità del licenziamento.

In primo luogo, i Giudici di Cassazione ribadiscono che il potere di risolvere il contratto di lavoro subordinato in caso di notevole inadempimento degli obblighi contrattuali deriva al datore di lavoro direttamente dalla legge (art. 3 della legge n. 604 del 1966) e non necessita, per il suo legittimo esercizio, di una dettagliata previsione, nel contratto collettivo o nel regolamento disciplinare aziendale, di ogni possibile ipotesi di comportamento integrante il suddetto requisito. Spetta infatti al giudice di verificare, ove si contesti la legittimità del recesso, se gli episodi addebitati integrino una fattispecie legale di inadempimento.

Per tale motivo, prosegue la Corte, anche se non specificamente previste dalla normativa negoziale, costituiscono ragione di valida intimazione del recesso le gravi violazioni dei doveri fondamentali connessi al rapporto di lavoro; si tratta nello specifico di quei doveri che sorreggono l’esistenza del rapporto lavorativo, quali i doveri imposti dagli artt. 2104 e 2105 cod. civ. (obblighi di diligenza e di fedeltà) nonché quelli derivanti da direttive aziendali.

Per i Giudici di legittimità, dunque, in tema di sanzioni disciplinari, deve distinguersi tra illeciti relativi alla violazione di specifiche prescrizioni attinenti all’organizzazione aziendale e ai modi di produzione, conoscibili solamente in quanto espressamente previste, ed illeciti concernenti comportamenti manifestamente contrari ai doveri dei lavoratori e agli interessi dell’impresa, per i quali non è invece richiesta la specifica inclusione nel codice disciplinare.

Quanto al codice disciplinare, i giudici ribadiscono che deve essere, in ogni caso, redatto in forma tale da rendere chiare le ipotesi di infrazione, sia pure dandone una nozione schematica e non dettagliata, e da indicare le correlative previsioni sanzionatorie, anche se in maniera ampia e suscettibile di adattamento secondo le effettive e concrete inadempienze.

In definitiva, dunque, con le citate sentenze viene confermata la legittimità del recesso datoriale anche laddove l’inadempimento contestato al lavoratore non costituisce una fattispecie espressamente disciplinata nel codice disciplinare aziendale ovvero dalla contrazione collettiva, ma si realizza attraverso la violazione dei doveri posti alla base rapporto lavorativo.

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Con ordinanza n. 11136 del 27 aprile 2023, la Corte di Cassazione si è espressa in tema di licenziamento per superamento del periodo di comporto precisando che le assenze per infortunio causato al lavoratore da cose che il datore aveva in custodia devono essere computate ai fini del comporto, se il datore di lavoro è in grado di dimostrare l’avvenuta adozione delle cautele antinfortunistiche e la natura imprevedibile ed inevitabile del fatto dannoso.

I fatti di causa e la decisione di merito

La lavoratrice, impiegata presso un appalto di ristorazione, impugna giudizialmente il licenziamento irrogatole per superamento del periodo di comporto. A fondamento della domanda, la lavoratrice deduce che, tra le assenze da computare al fine della conservazione del posto, non dovevano essere ricomprese quelle conseguenti all’infortunio occorsole a causa dello scoppio di una vetrinetta termica di proprietà della committente.

La Corte d’Appello di Venezia ha respinto l’appello proposto dalla lavoratrice confermando che, nel caso di specie, dovevano computarsi anche i giorni di assenza conseguenti all’infortunio essendo emersa, nel corso del giudizio, la assoluta imprevedibilità dell’evento. Inoltre, la Corte di merito ha rilevato che la committente in sede di appalto aveva consegnato le attrezzature in buono stato e che le stesse erano conformi alla normativa.

La sentenza della Suprema Corte

La lavoratrice ha proposto ricorso in Cassazione avverso la decisione assunta dalla Corte d’Appello di Venezia.

Con particolare riferimento al tema delle assenze computabili nel periodo di comporto, la Corte di Cassazione, sulla scorta di propri precedenti, ha confermato che le assenze del lavoratore dovute ad infortunio sul lavoro o a malattia professionale sono riconducibili, in linea di principio, all’ampia e generale nozione di infortunio o malattia contenuta nell’art. 2110 c.c., e sono, pertanto, normalmente computabili nel periodo di conservazione del posto di lavoro.

Difatti, affinché l’assenza non sia computabile nel periodo di comporto è necessario che in relazione a tale malattia e alla sua genesi sussista una responsabilità del datore di lavoro ai sensi dell’art. 2087 c.c.

La responsabilità di cui all’art. 2087 c.c., precisa la Corte, non configura infatti un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la stessa va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento. In tale contesto incombe, quindi, sul lavoratore che lamenti di avere subito a causa dell’attività lavorativa svolta un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro. Solo se il lavoratore abbia fornito la prova di tali circostanze sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare l’avvenuta adozione delle cautele antinfortunistiche e/o la natura imprevedibile ed inevitabile del fatto dannoso.

In applicazione dei suddetti principi la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso avendo il giudice di merito accertato che, nel caso di specie, l’esplosione della cantinetta fosse un evento non prevedibile in considerazione della diligenza esigibile e delle tecniche precauzionali applicabili.

Pertanto, è stata confermata la legittimità del recesso, stante la computabilità delle assenze per infortunio ai fini del comporto.

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Prima di procedere al licenziamento il datore di lavoro è tenuto a prendere in esame non solo le posizioni già vacanti alla data del licenziamento, ma anche quelle che saranno “disponibili in un arco temporale del tutto prossimo alla data in cui viene intimato il recesso”

Con sentenza n. 12132 dell’8 maggio 2023, la Corte di Cassazione è tornata a pronunciarsi in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, precisando che nelle valutazioni circa la possibilità  di  ricollocare  il  dipendente  prima  di  procedere  al  licenziamento  (cd.  obbligo  di repêchage), il datore di lavoro è tenuto a prendere in esame non solo le posizioni già vacanti alla data del licenziamento, ma anche quelle che saranno “disponibili in un arco temporale del tutto prossimo alla data in cui viene intimato il recesso“.

L’obbligo di repêchage nelle pronunce della giurisprudenza

La  fonte  dell’obbligo  di  repêchage  è  rintracciabile  nella  giurisprudenza  che  –  mossa  da un’interpretazione sistematica-adeguatrice dell’art. 3 L. 604/1966 conforme alla Costituzione – ritiene necessario gravare dell’onere di ripescaggio il datore di lavoro e ciò per realizzare “un certo contemperamento tra l’interesse dell’impresa e quello del lavoratore ugualmente protetti dalla normativa costituzionale” (Cass. n. 5777/2003 e Cass. n. 9656/2012).

L’obbligo di repêchage consiste in quell’obbligo posto a carico del datore di lavoro di verificare la sussistenza  di  possibilità  di  ricollocazione,  all’interno  della  stessa  azienda,  del  lavoratore  in esubero o divenuto inidoneo alla prestazione lavorativa che gli era stata assegnata. L’obbligo è direttamente legato al licenziamento per giustificato motivo oggettivo, per tale intendendosi quel licenziamento intimato per ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro ed al regolare  funzionamento  di  essa,  ovvero  determinato  dalla  “necessità  di  procedere  alla soppressione del posto o del reparto cui è addetto il singolo lavoratore” (Cass. n. 6026/2012), disciplinato dall’art. 3 L. 604/1966.

In applicazione di tale dovere, dunque, il datore di lavoro che decide di sopprimere una posizione lavorativa, per ragioni di carattere economico o di riorganizzazione aziendale, dovrà dare prova dell’insussistenza di altre posizioni cui adibire il dipendente.

Secondo l’interpretazione della giurisprudenza, infatti, affinché un licenziamento possa ritenersi giustificato da un motivo oggettivo, devono sussistere da un lato le ragioni giustificatrici della decisione  datoriale  (per  esempio  riorganizzazione,  ristrutturazione  aziendale  etc.)  e  dell’altro l’impossibilità  del  repêchage,  ovverosia  la  controprova  che  la  situazione  tecnico-produttiva dell’impresa non permetta al lavoratore di essere diversamente utilizzato.

Per  queste  ragioni,  il  licenziamento  per  giustificato  motivo  oggettivo  è  considerando  come estrema ratio.

Sebbene vi sia la necessità (i.e. obbligo) di verificare la sussistenza di altre possibili mansioni cui adibire il lavoratore, l’obbligo di repêchage non è esente da limiti applicativi. Infatti, non può chiedersi  all’imprenditore  uno  sforzo  economico  irragionevole  né  che  lo  stesso  apporti  delle modifiche organizzative o innovazioni strutturali non volute (Cass n. 31521/2019; sul tema, si vedano  anche  le  pronunce  riferibili  al  licenziamento  del  lavoratore  divenuto  inabile  alla prestazione lavorativa Cass. n. 6497/2021).

E’ però richiesto che la verifica venga fatta anche in relazione a mansioni inferiori che “siano compatibili  con  il  bagaglio  professionale  del  prestatore  (cioè  che  non  siano  disomogenee  e incoerenti  con  la  sua  competenza)  ovvero  quelle  che  siano  state  effettivamente  già  svolte, contestualmente o in precedenza” (Cass. n. 31521/2019).

Strettamente collegato all’obbligo di repêchage è il divieto di procedere a nuove assunzioni per un “congruo periodo“.

L’assenza di nuove assunzioni nel periodo successivo al licenziamento comprova infatti, secondo l’insegnamento giurisprudenziale, la mancanza di posizioni vacanti ove poter utilmente ricollocare il lavoratore.

Il concetto di “congruo periodo” è stato variamente inteso, come dimostrano le diverse pronunce sul punto. Nella specie, delle volte è stato ritenuto idoneo un arco temporale di tre mesi, altre volte quello di 6 mesi, fino anche ad arrivare a 8 mesi oppure un anno (Trib. Bari n. 11249/2013). Questo aspetto – ma anche ed in ogni caso sul concetto di “congruo periodo” richiamato dalla sentenza in commento – rappresenta il profilo di maggiore incertezza applicativa. Ciò poiché, come ricordato dalla dottrina, la sussistenza del giustificato motivo richiede la contemporanea presenza di tutti gli elementi della fattispecie.

Sulla distribuzione tra il datore di lavoro e il lavoratore degli oneri probatori, i doveri di allegazione e prova in merito al rispetto dell’obbligo di repêchage, la giurisprudenza ha fornito importanti indicazioni.

L’orientamento giurisprudenziale consolidatosi per primo riteneva che gravasse sul lavoratore che impugnava il licenziamento intimatogli per giustificato motivo oggettivo l’onere di indicare le posizioni  alle  quali  lo  stesso  avrebbe  potuto  essere  utilmente  adibito  (tra  le  tante,  Cass.  n. 19923/2015; Cass. n. 3040/2011).

Solo successivamente, la Corte di Cassazione, mutando il proprio orientamento, ha affermato che  “spetta  al  datore  di  lavoro  l’allegazione  e  la  prova  dell’impossibilità  di  repêchage  del lavoratore licenziato, in quanto requisito del giustificato motivo di licenziamento, con esclusione di  un  onere  di  allegazione  al  riguardo  del  secondo,  essendo  contraria  agli  ordinari  principi processuali una divaricazione tra i due suddetti oneri, entrambi spettanti alla parte deducente” (Cass. n. 5592/2016).

Il datore di lavoro, inoltre, deve fornire prova che per un “congruo periodo” non ha proceduto a nuove assunzioni (ex multis, Cass. n. 6/2013; Cass. n. 6559/2010).

Continua a leggere la versione integrale pubblicata su Modulo 24 Contenzioso Lavoro de Il Sole 24 Ore.

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Non c’è violazione dell’obbligo di repêchage se il lavoratore non vuole trasferirsi in altra sede

Con ordinanza n. 9453 del 6 aprile 2023, La Corte di Cassazione si è espressa in tema di licenziamento per scarso rendimento precisando che detta tipologia di recesso rientra nell’ambito dei licenziamenti per giustificato motivo soggettivo che conseguono ad un notevole inadempimento da parte del lavoratore degli obblighi contrattuali sullo stesso incombenti. In tale ambito, il datore di lavoro è tenuto a fornire la prova che il mancato raggiungimento di un risultato prefissato – che non costituisce di per sé inadempimento – derivi da una evidente violazione della diligente collaborazione dovuta dal prestatore di lavoro ed allo stesso imputabile.

Il fatto affrontato e il giudizio di merito

In data 5 luglio 2016, ad un lavoratore di un istituto bancario, addetto all’Ufficio Sviluppo, veniva intimato un licenziamento per giusta causa sulla base di cinque addebiti disciplinari. Uno dei predetti addebiti si riferiva per l’appunto allo scarso rendimento, contestato per il periodo da novembre 2015 ad aprile 2016, per il quale la banca aveva comparato l’esiguo numero di visite a filiali e clienti dallo stesso effettuate dal lavoratore interessato dal procedimento disciplinare con i dati di produzione degli altri colleghi addetti al medesimo ufficio e mansioni, risultati enormemente superiori.

Nell’ambito del c.d. Rito Fornero e con particolare riferimento all’addebito sullo scarso rendimento, il Tribunale di Treviso, pur accertando la violazione del principio di immediatezza della contestazione disciplinare, confermava la sussistenza dello scarso rendimento e, sulla scorta di ciò, limitava la tutela in favore del lavoratore all’indennità risarcitoria di cui all’art. 18, comma 6, Legge n. 300/70, nella misura di 12 mensilità.

In sede di opposizione ex art. 1, comma 57, Legge n. 92/2012, il Tribunale di Treviso confermava la sussistenza dell’addebito sullo scarso rendimento in relazione al quale, superando l’eccezione di violazione del principio di immediatezza della contestazione, ne confermava l’idoneità a giustificare il recesso per scarso rendimento. Stante ciò, detto Tribunale – richiamando il disposto del CCNL applicato al rapporto di lavoro – convertiva il licenziamento per giusta causa in uno per giustificato motivo soggettivo, con condanna del prestatore di lavoro alla restituzione dell’indennità risarcitoria ex art. 18, comma 6, Legge n. 300/70 sopra richiamata, al netto dell’indennità sostitutiva del preavviso.

In sede di appello, la Corte territoriale di Venezia confermava la sentenza di primo grado del Tribunale di Treviso considerando l’inadempimento contestato al lavoratore di notevole entità avuto altresì conto della mancanza di elementi obiettivi che giustificassero la riduzione di attività da parte del lavoratore medesimo.

La sentenza della Suprema Corte

Il lavoratore ha proposto ricorso in Cassazione avverso la decisione assunta dalla Corte d’Appello di Venezia, al quale resisteva l’istituto bancario con controricorso.

Con particolare riferimento al tema dello scarso rendimento, la Corte di Cassazione, sulla scorta di propri precedenti, ha confermato che il licenziamento per scarso rendimento rientra tra i licenziamenti per giustificato motivo soggettivo rispetto al quale incombe sul datore di lavoro l’onere di provare, non solo il mancato raggiungimento del risultato atteso, ma anche la riconducibilità di esso ad un colpevole negligente inadempimento degli obblighi scaturenti in capo al lavoratore dal sottostante rapporto di lavoro.

Nel caso di specie, la Corte di Cassazione ha condiviso l’accertamento compiuto dal Tribunale di Treviso rilevando che il lavoratore, in considerazione del modesto numero di visite effettuate presso i clienti e tenuto conto dell’acquisizione di un solo cliente nel periodo di tempo preso in considerazione dal datore di lavoro, avesse reso una prestazione lavorativa insufficiente che, rapportata ai dati di produzione degli altri colleghi, aveva condotto il giudice di prime cure ad accertare l’effettività dello scarso rendimento e della sua gravità.

In tema di prova, gli Ermellini hanno invece rilevato che la corte territoriale di Venezia avesse correttamente “apprezzato l’inadempimento addebitato” al ricorrente, “una volta escluse (…) le situazioni allegate dal lavoratore (…) che avrebbero potuto quantomeno in parte giustificarlo”. Inoltre, la Corte di Cassazione, sempre richiamando propri precedenti, ha precisato che, per la valutazione della gravità dell’inadempimento, “può costituire segno o indice di non esatta esecuzione della prestazione” lo scostamento da parte del lavoratore da eventuali “parametri per accertare se la prestazione sia eseguita con diligenza e professionalità medie”, avuto conto dell’attività resa per “un apprezzabile periodo di tempo”.

A sostegno di tale tesi, la Corte di Cassazione ha richiamato un altro suo precedente (Cass. Civ., Sez. Lav., sentenza n. 18678 del 4 settembre 2014) in cui era stata confermata la legittimità di un licenziamento per scarso rendimento intimato ad un lavoratore che era stato provato aver commesso una “evidente violazione della diligente collaborazione dovuta” ed allo stesso imputabile, “in conseguenza dell’enorme sproporzione tra gli obiettivi fissati dai programmi di produzione per il lavoratore e quanto effettivamente realizzato nel periodo di riferimento, tenuto conto della media attività tra i vari dipendenti ed indipendentemente dal conseguimento di una soglia minima di produzione”.

Circa invece l’esiguità del periodo di tempo considerato ai fini della valutazione dell’inadempimento, la Corte di Cassazione non ha condiviso i rilievi del ricorrente, soprattutto, in considerazione del fatto che dagli elementi probatori offerti dal datore di lavoro (i.e., la comparazione dei dati dell’attività del lavoratore licenziamento con quelli dei colleghi) era emersa “una rilevantissima sproporzione tra le prestazioni dell’attuale ricorrente e quelle di diversi suoi colleghi del medesimo ufficio sviluppo; sproporzione che, a sua volta, ben può essere sussunta in un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del lavoratore”.

Il ricorso del lavoratore è stato pertanto rigettato con condanna dello stesso al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.

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