Con la recente ordinanza del 16 dicembre 2022, il Tribunale di Foggia, nell’ambito della prima fase del c.d. Rito Fornero, ha ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa intimato ad un dipendente che aveva prestato attività lavorativa a favore di terzi durante la malattia.

I fatti di causa

Nel caso esaminato dalla ordinanza in commento, il lavoratore si assentava dal lavoro per malattia nei giorni 9 e 10 novembre, inviando poi un secondo certificato di prosecuzione della malattia a copertura dei giorni 11, 12 e 13 novembre.

Durante il periodo di malattia, la società conduceva alcune investigazioni, nel corso delle quali emergeva che il dipendente, nei giorni 10, 11 e 13 novembre, aveva svolto attività lavorativa in un pub gestito dalla moglie.

La società avviava il procedimento disciplinare, contestando al dipendente la simulazione dello stato di malattia, l‘inidoneità della stessa a determinare uno stato di incapacità lavorativa, nonché, ove sussistente la malattia, la ripetuta violazione del dovere del lavoratore di non pregiudicare i tempi di rientro al lavoro.

Nell’articolare le proprie giustificazioni, il dipendente dichiarava che la malattia era stata regolarmente certificata dal proprio medico e che, per mero spirito di collaborazione familiare e in via del tutto eccezionale, il lavoratore acconsentiva ad aiutare sua moglie, precisando che tale attività veniva prestata al di fuori dell’orario di lavoro e senza percepire alcun corrispettivo.

La società, ritenendo di non poter accogliere le giustificazioni rese dal dipendente, intimava allo stesso il licenziamento per giusta causa.

L’ordinanza del Tribunale di Foggia

Attraverso una compiuta analisi dei documenti prodotti in giudizio dal datore di lavoro – tra cui la relazione investigativa che descriveva dettagliatamente le attività poste in essere dal lavoratore durante l’assenza per malattia – il Tribunale ha accertato che il comportamento tenuto dal dipendente avesse violato i doveri contrattuali di correttezza e buona fede nell’adempimento dell’obbligazione contrattuale.

Ed infatti, analizzando i fatti risultanti dalla relazione investigativa, emergeva che il lavoratore aveva utilizzato – di sera, nel mese di novembre e, dunque, con temperature rigide – un monopattino elettrico per raggiungere il pub, aveva poi servito ai tavoli, preso le ordinazioni e si era trattenuto nel pub fino alle ore 23.

Trattasi di comportamenti che – secondo la valutazione del giudice – hanno dimostrato una scarsa attenzione del lavoratore alla propria salute e ai relativi doveri di cura e di non ritardata guarigione, con conseguente compromissione dell’interesse creditorio del datore di lavoro all’effettiva esecuzione della prestazione dovuta.

Il Tribunale, pertanto, accertando la violazione da parte del dipendente del proprio dovere di osservare tutte le cautele volte a non pregiudicare il recupero delle energie lavorative temporaneamente minate dalla malattia, ha rigettato il ricorso promosso dal dipendente, confermando la piena legittimità del licenziamento per giusta causa intimato al lavoratore.

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La Suprema Corte ha precisato che le sommarie informazioni rese nell’ambito di un procedimento penale sono liberamente valutabili nel giudizio civile ai sensi dell’art. 116 c.p.c., non essendo a tal fine necessario che i dichiaranti abbiano prestato giuramento, in quanto nel sistema processuale civile manca una norma di chiusura sulla tassatività tipologica dei mezzi di prova

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 27680 del 21 settembre 2022, ha statuito che il giudice civile, in assenza di divieti di legge, può formare il proprio convincimento anche sulla base di prove atipiche, come quelle raccolte in un altro giudizio tra le stesse o tra altre parti, fornendo adeguata motivazione del relativo utilizzo e senza che rilevi la divergenza delle regole, proprie di quel procedimento, relative all’ammissione e all’assunzione della prova. In particolare, la Suprema Corte ha precisato che le sommarie informazioni rese nell’ambito di un procedimento penale sono liberamente valutabili nel giudizio civile ai sensi dell’art. 116 c.p.c., non essendo a tal fine necessario che i dichiaranti abbiano prestato giuramento, in quanto nel sistema processuale civile manca una norma di chiusura sulla tassatività tipologica dei mezzi di prova

Le prove atipiche e i precedenti giurisprudenziali

Il richiamato principio di diritto coinvolge la problematica, dibattuta in dottrina e in giurisprudenza, relativa all’ammissibilità nel processo del lavoro e, più in generale, nel processo civile ordinario, delle c.d. “prove atipiche”, ovverosia dei mezzi istruttori diversi da quelli previsti e disciplinati dal codice civile e dal codice di rito. ll principio secondo cui il nostro sistema processuale non contiene una norma sulla tassatività dei mezzi di prova è stato più volte affermato in giurisprudenza. In particolare, la Suprema Corte ha statuito che, dall’assenza di una norma di chiusura che indichi un numerus clausus di prove, e tenuto conto del diritto alla prova (quale espressione della garanzia costituzionale del diritto di difesa) nonché del relativo principio del libero convincimento del giudice, “consegue che il giudice può legittimamente porre alla base del proprio convincimento anche prove cosiddette atipiche, purché idonee a fornire elementi di giudizio sufficienti, se ed in quanto non smentite dal raffronto critico con le altre risultanze del processo” (Cass. 26 settembre 2000, n. 12763. In termini: Cass. 25 marzo 2004, n. 5965). L’atipicità può riguardare, ad esempio, il fatto che una prova tipica sia stata raccolta in una sede diversa da quella ove viene utilizzata, ovvero che mezzi probatori tipici siano utilizzati con una finalità diversa da quella che tradizionalmente è loro riservata (come avviene nel caso di chiarimenti resi dalle parti al CTU) o ancora può riguardare la modalità con cui la prova viene acquisita al giudizio (come avviene quando vengono depositate in giudizio dichiarazioni scritte provenienti da persone che potrebbero essere assunte come testimoni). L’atipicità si ricollega, quindi, al fatto che la prova non sia predeterminata, vale a dire non sia una prova inclusa tra quelle tipiche previste nel codice o anche nel caso in cui essa sia acquisita in maniera differente rispetto a quanto previsto dal modello legale. Con riferimento alla valutazione di tali prove atipiche, la giurisprudenza della Suprema Corte ha precisato che il giudice civile, ai fini del proprio convincimento, può autonomamente valutare, ai sensi dell’art. 116 c.p.c., nel contraddittorio tra le parti, ogni elemento dotato di efficacia probatoria e, dunque, anche le prove raccolte in un processo penale e, segnatamente – come pure avvenuto nel caso di specie – “le dichiarazioni verbalizzate dagli organi di polizia giudiziaria in sede di sommarie informazioni” (Cass. n. 22020/2007). E’ stato altresì precisato che nell’accertamento della sussistenza di determinati fatti e della loro idoneità a costituire giusta causa di licenziamento, “il giudice del lavoro può fondare il proprio convincimento sulle dichiarazioni testimoniali assunte nel corso delle indagini preliminari, anche se sia mancato il vaglio critico del dibattimento ove il procedimento penale sia stato definito ai sensi dell’articolo 444 cod. proc. pen., potendo la parte contestare, nell’ambito del giudizio civile, i fatti così acquisiti in sede penale” (Cass. n. 132/2008).

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L’Ufficio stampa della Corte Costituzionale lo scorso 25 giugno ha diramato un comunicato per informare che la Consulta ha esaminato, il precedente 24 giugno, le questioni di illegittimità costituzionali sollevate dai Tribunale di Roma e di Bari con riguardo ai criteri di determinazione dell’indennità da corrispondere in presenza di un licenziamento viziato solo da un punto di vista formale e procedurale ex art. 4 del D.Lgs. 23/2015. Nello specifico l’Ufficio ha fatto sapere che è stato dichiarato incostituzionale l’inciso “di importo pari a una mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio. Ciò in quanto, a parere della Corte Costituzionale, lo stesso fissa un criterio rigido ed automatico, legato al solo elemento dell’anzianità di servizio. La Consulta torna così a bocciare il Jobs Act. Si era, infatti, già espressa sul punto nel 2018 allorquando aveva dichiarato illegittimo l’art. 3, comma 1, del D.Lgs 23/2015 limitatamente al criterio di determinazione dell’indennità, da riconoscere in caso di licenziamento privo di giusta causa e giustificato motivo, automaticamente e unicamente ancorato all’anzianità di servizio. Si attendono ora le motivazioni della sentenza che saranno depositate nelle prossime settimane.

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