Con la sentenza n. 24473 del 12/09/2024, la Cassazione ha stabilito che l’astensione individuale dal lavoro non può essere qualificata come sciopero. La pronuncia è giunta a seguito del rigetto del ricorso presentato da alcuni lavoratori contro una sanzione disciplinare inflitta da una società autostradale a seguito di due giornate di assenza non giustificata. La Corte d’appello aveva dichiarato la legittimità della sanzione, affermando che l’assenza dei dipendenti non era stata accompagnata da una proclamazione sindacale, condizione necessaria affinché l’astensione potesse essere qualificata come sciopero. In particolare, la Corte di merito aveva evidenziato che, in mancanza di una comunicazione formale da parte di un sindacato che dichiarasse l’ora di inizio dello sciopero e in assenza di una deliberazione collettiva, il comportamento dei lavoratori era da considerarsi una scelta individuale.  

I lavoratori hanno impugnato tale decisione, sostenendo che il diritto di sciopero potesse essere esercitato senza una proclamazione sindacale. Tuttavia, la Suprema Corte ha chiarito che, sebbene lo sciopero rappresenti un diritto individuale, è essenziale che sia collettivamente concordato in presenza di una situazione conflittuale implicante la tutela di un interesse collettivo. Conseguentemente, la Corte ha rigettato il ricorso e dichiarato legittima la sanzione

Con ordinanza 27610 del 24 ottobre 2024, la Corte di cassazione ha dichiarato legittimo il licenziamento per giusta causa di un dipendente, accusato di aver reiteratamente «abusato» delle pause lavorative trascorrendo tempi eccessivi in un bar con i colleghi di lavoro.

La vicenda giudiziale trae origine dal licenziamento per giusta causa irrogato al lavoratore a seguito di ripetute assenze ingiustificate. In particolare, attraverso l’intervento di un’agenzia investigativa, era stato documentato come, in tre occasioni, il lavoratore si fosse trattenuto – per mezz’ora e anche oltre – in conversazioni con colleghi nei pressi di un bar, approfittando delle pause previste durante l’orario lavorativo.

La Corte d’appello di Catanzaro, in riforma della pronuncia di primo grado – che, pur ritenendo sussistenti i fatti contestati, aveva considerato illegittimo il recesso per difetto di proporzionalità della sanzione, disponendo la tutela indennitaria – aveva affermato la legittimità del licenziamento, sottolineando che le prolungate assenze non rappresentavano semplici necessità fisiologiche, ma un uso improprio del tempo di lavoro. La Corte territoriale aveva sottolineato che le reiterate violazioni dei doveri di ufficio erano da considerarsi ancora più gravi considerato il ruolo apicale rivestito all’interno dell’azienda dal dipendente, il quale ricopriva funzioni di responsabilità e coordinamento di altri lavoratori nell’ambito di un servizio di particolare importanza quale quello della raccolta rifiuti, che poteva compromettere la percezione del cittadino nei confronti del servizio stesso. La Corte d’appello ha inoltre disposto che «i fatti avessero “rilievo penale” o comunque erano idonei “a raggirare il datore di lavoro” e a ledere non solo “il patrimonio aziendale, ma anche l’immagine dell’azienda all’esterno».

La Cassazione ha ribadito che il datore ha il diritto di tutelare la propria reputazione, sottolineando come l’immagine aziendale sia di fondamentale importanza, specialmente in settori di rilevanza pubblica, come quello della raccolta dei rifiuti, dove la percezione del cittadino può influenzare la fiducia e l’efficacia del servizio. La Corte di legittimità ha, inoltre, evidenziato che, sebbene non sia consentito servirsi di investigatori privati con il fine di effettuare un controllo indiscriminato sull’adempimento della prestazione lavorativa, il datore ha, comunque, la facoltà di servirsi di tali agenzie, laddove vi sia il sospetto o la mera ipotesi che siano in corso di esecuzione atti illeciti commessi dal lavoratore. La Cassazione, ha infine ricordato che la nozione di «patrimonio aziendale» è da intendersi nella sua accezione estesa, comprendendo non solo il complesso dei beni aziendali, ma anche l’immagine esterna.

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La Corte di Cassazione, con ordinanza del 4 luglio 2024, n. 18296, ha affermato che il dipendente che adotta atteggiamenti ostruzionistici rispetto all’operato aziendale lede il vincolo fiduciario con il datore di lavoro in modo irrimediabile ed è quindi passibile di licenziamento.

La vicenda

Il caso riguardava, in particolare, un dipendente di un’azienda di servizi ambientali, con mansioni di autista addetto al conferimento dei rifiuti ai centri di trattamento con mezzi di grossa portata, che aveva rifiutato di eseguire i suoi doveri rientrando in azienda con il mezzo ancora carico. Questo comportamento aveva esposto la società datrice di lavoro a potenziali sanzioni amministrative e violazioni della normativa ambientale, nonché alle contestazioni del Comune, unico committente.

Il dipendente si era rifiutato infatti di scaricare i rifiuti, adducendo inizialmente ragioni legate ai ritardi nelle operazioni di conferimento dei rifiuti stessi, e, successivamente, a motivi di salute.

Nonostante i ripetuti inviti del suo superiore a procedere con lo scarico o attendere un cambio di autista, il lavoratore rientrava in azienda senza aver completato il lavoro.

La posizione della Corte d’Appello

Il lavoratore aveva sostenuto che, in base al CCNL per i dipendenti delle società di servizi ambientali ed al Codice disciplinare aziendale, l’insubordinazione era punibile solo con sanzioni conservative, quali la sospensione, riservando il licenziamento ai casi più gravi, come quelli accompagnati da “vie di fatto”.

La Corte di Appello, riformando la sentenza di primo grado, aveva invece ritenuto la condotta del lavoratore non riconducibile alla mera insubordinazione, ma ad un grave inadempimento del lavoratore, aggravato da implicazioni amministrative e legali per la società. Tale comportamento, dunque, era tale da integrare una “giusta causa” di licenziamento.

Il dipendente ha quindi impugnato la sentenza dinanzi la Suprema Corte di Cassazione.

La decisione della Cassazione

La Corte di Cassazione ha affermato che in tema di licenziamento disciplinare, la nozione di insubordinazione non può essere limitata al rifiuto di adempimento delle disposizioni dei superiori, ma ricomprende qualsiasi comportamento atto a pregiudicare l’esecuzione e il corretto svolgimento delle suddette disposizioni nel quadro dell’organizzazione aziendale (Cass. n. 13411/2020).

Nel caso di specie, la Suprema Corte ha ritenuto il comportamento del lavoratore più grave di una semplice insubordinazione. Secondo la Corte, infatti, il rifiuto intenzionale del lavoratore, unito alla sua decisione di non attendere neanche il cambio di autista e di rientrare in azienda con il carico di rifiuti, ostacolando in tal modo il conferimento dei rifiuti ed esponendo il datore di lavoro a potenziali sanzioni amministrative ambientali, integrava una grave violazione della fiducia e degli obblighi contrattuali, tali da giustificarne il licenziamento per giusta causa.

In conclusione, la Suprema Corte ha respinto il ricorso del lavoratore, ritenendo legittimo il licenziamento imposto dall’azienda.

Con l’ordinanza 26440 del 10 ottobre 2024, la Corte di cassazione, Sezione Lavoro, confermando la legittimità del licenziamento irrogato nei confronti di un dipendente che si era rivolto in modo sgarbato e scurrile nei confronti di un cliente, torna a ribadire i confini della verifica in sede di legittimità della “giusta causa” di recesso.

La vicenda giudiziaria ha avuto origine dal licenziamento disciplinare inflitto nei confronti di un dipendente, con mansioni di addetto al banco macelleria di un supermercato, al quale il datore di lavoro aveva contestato di essersi rivolto nei confronti di un cliente anziano con toni aggressivi e volgari.

Mentre il Tribunale di primo grado aveva accolto l’impugnativa del licenziamento proposta dal dipendente, la Corte di appello di Cagliari, invece, riformando la decisione di primo grado, aveva confermato la legittimità del provvedimento espulsivo.

Nel caso di specie, la Corte territoriale aveva ritenuto che il comportamento del dipendente costituisse una grave violazione dei suoi obblighi contrattuali, in particolare dell’obbligo di «usare modi cortesi col pubblico e di tenere una condotta conforme ai civici doveri», passibile di licenziamento disciplinare ai sensi dell’articolo 215 del contratto collettivo per i dipendenti da aziende del Terziario, della Distribuzione e dei Servizi applicato al rapporto di lavoro.

La Corte aveva sottolineato, in particolare, la gravità della condotta tenuta dal dipendente in quanto, in tale occasione, l’addetto al bancone, non solo non aveva chiesto scusa al cliente, peraltro anziano, ma aveva proseguito la discussione con toni sempre più accesi, dando luogo ad «uno spettacolo indecoroso e anche un po’ preoccupante». Nel valutare la congruità del provvedimento espulsivo, la Corte di appello, aveva inoltre preso in considerazione i precedenti disciplinari contestati al dipendente nei due anni precedenti che, seppur non specifici, evidenziavano una reiterata inosservanza da parte di quest’ultimo delle regole aziendali, tale da non rendere più sostenibile la prosecuzione del rapporto di lavoro.

Con l’ordinanza in commento, la Cassazione, rigettando il ricorso proposto dal dipendente avverso la sentenza della Corte cagliaritana, ha colto l’occasione per consolidare il proprio orientamento e ribadire alcuni principi vigenti in materia di recesso per giusta causa ex articolo 2119 del Codice civile.

In particolare, la Corte di legittimità ha osservato che la “giusta causa”, intesa come fatto che non consente la prosecuzione neanche provvisoria del rapporto di lavoro, rientra tra le cosiddette clausole generali, ossia quelle disposizioni normative a contenuto limitato e generico, che richiedono di essere specificate da parte del giudice in sede interpretativa «mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama».

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L’invio del certificato medico tramite fax è una valida modalità di comunicazione della malattia da parte del lavoratore, in quanto espressamente prevista nel regolamento aziendale

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 25661 del 25 settembre 2024, ha ritenuto illegittimo il licenziamento di un lavoratore che, in ferie all’estero, aveva comunicato la propria assenza per malattia, tramite fax, affermando che tale modalità fosse conforme al regolamento aziendale. La Corte ha sottolineato come la comunicazione della malattia potesse avvenire anche in forme diverse dalla lettera raccomandata, se previsto dal regolamento aziendale.

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La comunicazione della malattia al datore di lavoro può essere validamente effettuata tramite fax, qualora tale modalità sia espressamente prevista dal regolamento aziendale. In tal caso, si presume che il fax sia stato correttamente ricevuto dal datore di lavoro qualora il lavoratore riesca a documentare, mediante rapporti di trasmissione, il buon esito della comunicazione, anche in assenza di tracce sui server aziendali. La condotta del lavoratore riguardo la comunicazione della malattia all’estero, sebbene possa essere considerata non del tutto diligente, non è sufficiente a configurare una giusta causa di licenziamento, qualora non venga dimostrata la consapevolezza del lavoratore circa il mancato buon esito della trasmissione.

I fatti di causa

Il caso esaminato dalla Corte di Cassazione riguarda il licenziamento per giusta causa per “assenza ingiustificata di oltre quattro giorni” irrogato nei confronti di un lavoratore che, mentre si trovava in Romania per ferie, si era ammalato. Il dipendente ha sostenendo la giustificatezza della propria assenza, affermando che aveva contratto la malattia durante il periodo di ferie e, pertanto, aveva inviato il certificato medico tramite fax, in linea con quanto previsto dal regolamento aziendale.

A seguito del licenziamento, il lavoratore ha, dunque, impugnato il provvedimento dinanzi al Tribunale di Treviso, chiedendo l’annullamento del recesso per insussistenza del fatto contestato.

L’argomento principale alla base degli scritti difensivi della società consisteva nella presunta inadeguatezza della comunicazione di malattia. Nella specie, l’azienda ha sostenuto che il lavoratore non aveva rispettato le procedure previste dal regolamento aziendale, che, secondo la società, richiedevano sia una comunicazione più “formale”, tipicamente attraverso lettera raccomandata, sia un preavviso telefonico. Di contrario avviso era il lavoratore, il quale ha replicato che l’invio del fax fosse una modalità consentita dal regolamento stesso e che il certificato era stato trasmesso correttamente, come dimostrato dal rapporto di trasmissione.

I vari gradi di giudizio

Durante la fase sommaria, il Tribunale di Treviso ha accolto l’impugnazione del lavoratore, annullando il licenziamento e ordinandone la reintegrazione. Inoltre, condannava la società al pagamento «dell’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento fino all’effettiva reintegrazione».

Avverso la decisione del Tribunale, l’azienda ha successivamente depositato il proprio ricorso dinanzi la Corte d’Appello di Venezia, la quale ha accolto parzialmente il gravame, confermando l’illegittimità del licenziamento e la reintegrazione, ma rideterminando l’indennità risarcitoria in dodici mensilità.

La Corte ha, infatti, sostenuto che l’articolo 40 del contratto collettivo applicato prevede l’assenza ingiustificata pari o superiore a quattro giorni come causa di licenziamento disciplinare, includendo nella definizione di assenza ingiustificata anche la tardiva comunicazione ed il ritardo nell’invio del certificato medico.

In aggiunta a quanto sopra, secondo il regolamento aziendale era preciso dovere del lavoratore avvertire il datore di lavoro il giorno stesso dell’evento, oltre a procedere all’invio del certificato medico.

Inoltre, è emerso che il dipendente non aveva documentato alcun impedimento che giustificasse la mancata comunicazione; infatti, l’unico messaggio di testo inviato risaliva a giorni successivi all’inizio dell’assenza contestata.

Un ultimo aspetto significativo esaminato dalla Corte d’Appello ha riguardato la mancanza di allegazione da parte del dipendente circa un possibile impedimento di comunicazione telefonica. Sul punto, la Corte ha osservato che «il lavoratore non ha documentato un impedimento di tale gravità da escludere radicalmente la possibilità di un preventivo serio tentativo di contatto con il responsabile aziendale». Infine, ha sottolineato che «il lavoratore ha tenuto una condotta formalmente ossequiosa degli obblighi contrattuali, ma limitandosi ad adempiervi in forma minimale».

Conseguentemente, la Corte ha rilevato che il lavoratore non aveva rispettato l’obbligo di avvisare telefonicamente il datore di lavoro, contravvenendo così al regolamento aziendale e alle regole di diligenza richiesta nell’ambito di un rapporto di lavoro subordinato.

Avverso la decisione della Corte di Appello, l’azienda ha presentato ricorso per Cassazione, articolando cinque motivi di impugnazione.

Il primo motivo, si è basato sulla presunta nullità della sentenza per avere la Corte d’Appello fornito affermazioni contraddittorie ed inconciliabili tra loro. In particolare, i giudici del reclamo avrebbero «dapprima affermato che il comportamento del lavoratore non era stato lineare né improntato alle basilari regole di sollecita diligenza richieste dal rapporto di lavoro subordinato» e, successivamente, «escluso la sussistenza della giusta causa».

La Corte di Cassazione, respingendo la predetta tesi, ha affermato che la contraddittorietà era solo apparente, in quanto la Corte d’Appello aveva ritenuto sufficiente sia la modalità di invio tramite fax, in quanto prevista dal regolamento aziendale, sia la prova della sua ricezione nel rapporto di trasmissione prodotto in giudizio dal lavoratore, in quanto analogo fax risultava spedito all’INPS e da essi regolarmente ricevuto.

Con il secondo motivo, la società ha impugnato la decisione della Corte, per aver ritenuto “idonea” la modalità di trasmissione tramite fax.

La Corte di Cassazione ha ritenuto il motivo infondato in quanto «il fax era una modalità prevista dal regolamento aziendale» e «la norma di legge non esclude modalità equivalenti secondo forme d’uso, che ben possono essere previste appunto da un regolamento aziendale».

Con il terzo motivo, la società ha sostenuto che la Corte territoriale ha contraddittoriamente «dapprima affermato che solo in giudizio il datore di lavoro aveva potuto verificare il contenuto della trasmissione del fax, ossia la certificazione medica, poi affermato che non vi era prova di falsificazione o alterazione del messaggio».

Anche in questo caso, la Cassazione ha respinto le argomentazioni dell’azienda, affermando che il fax era da considerarsi un valido mezzo di comunicazione, così come previsto dal regolamento aziendale, sicché «la conoscenza del destinatario è irrilevante ai fini del fatto oggetto della contestazione disciplinare»

Con il quarto motivo la società ha contestato che la Corte territoriale ha presunto il corretto arrivo del fax partendo dall’unico dato disponibile circa l’effettivo invio dello stesso.

La Cassazione ha affermato che «l’obbligo del lavoratore si esaurisce nella verifica del buon esito della trasmissione del fax», affermando dunque che «la condotta del lavoratore è quindi esente da addebiti».

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