Con la sentenza n. 148, pubblicata in Gazzetta Ufficiale in data 31 luglio 2024, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 230-bis, terzo comma, del Codice Civile, nella parte in cui non annovera il “convivente di fatto” tra i partecipanti all’impresa familiare.

La pronuncia trae origine dalla pretesa azionata dalla convivente di un titolare di un’azienda agricola, poi deceduto, di ottenere dagli eredi di quest’ultimo la liquidazione della propria quota di partecipazione all’impresa familiare, in cui sosteneva di aver prestato attività lavorativa in modo continuativo per circa otto anni.

Dopo il rigetto della domanda nei primi due gradi di giudizio, la questione è stata sottoposta alla Consulta dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.

Le Sezioni Unite, in particolare, hanno sollevato la questione di legittimità costituzionale dell’art. 230-bis, terzo comma, c.c. in materia di impresa familiare, con riferimento agli articoli 2, 3, 4, 35 e 36 della Costituzione, nella parte in cui non includeva il convivente more uxorio nel novero dei “familiari”.

La Corte costituzionale ha accolto la questione rilevando che, in una società notevolmente mutata, in seguito ai recenti sviluppi normativi e approdi giurisprudenziali, costituzionali, comuni ed europei, è stata riconosciuta piena dignità alla famiglia composta da conviventi di fatto.

La Corte ha evidenziato che pur rimanendo ancora alcune differenze di disciplina rispetto alla famiglia fondata sul matrimonio, quando si tratta di diritti fondamentali, questi devono essere riconosciuti a tutti, senza distinzioni di sorta.

Tra questi diritti fondamentali rientrano, senza dubbio, il diritto al lavoro e alla giusta retribuzione, anche nel contesto di un’impresa familiare, ove la posizione del convivente di fatto necessita della medesima protezione del coniuge, dal momento che entrambi versano nella stessa situazione in cui “l’affectio maritalis fa sbiadire l’assoggettamento al potere direttivo dell’imprenditore, tipico del lavoro subordinato, e la prestazione lavorativa rischia di essere inesorabilmente attratta nell’orbita del lavoro gratuito”.

Sulla base di tali premesse la Corte ha quindi dichiarato l’incostituzionalità della norma attesa la mancata inclusione del convivente di fatto nel novero dei partecipanti all’impresa familiare.

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Il 12 dicembre 2024, la Corte di cassazione ha ritenuto conformi le richieste di referendum depositate a luglio dalla Cgil inerenti, tra l’altro, la disciplina dei licenziamenti illegittimi nell’ambito del contratto di lavoro cosiddetto a tutele crescenti di cui al Dlgs 23/2015.
Tale sistema rimediale ha, da sempre, interessato l’opinione pubblica e il dibattito politico, e ancora oggi rappresenta un punto di frattura tra le parti sociali. Basti pensare che, se da un lato, lo scorso 8 settembre 2024, in occasione del primo incontro pubblico tra il leader della Cgil, Maurizio Landini, e il presidente di Confindustria, Emanuele Orsini, quest’ultimo aveva confermato che «superare il Jobs act sarebbe un tuffo nel passato, abbiamo un gap tra domanda e offerta di lavoro che vale 43 miliardi all’anno. Per noi oggi il tema è attrarre persone, non superare una misura che sta funzionando», dall’altro, il segretario generale della Cgil ha affermato che con il via libera della Cassazione ai quesiti referendari «si apre una grande opportunità per il Paese».

Orbene, stante il persistente divario tra le posizioni delle parti sociali e il forte impatto che il contratto a tutele crescenti ha sull’opinione pubblica (prova ne è, da ultimo, il raggiungimento del quorum referendario), appare utile valutare se, da un mero punto di vista tecnico/legale, la normativa di cui al Dlgs 23/2015 presenti attualmente sostanziali differenze rispetto alla tutela offerta dall’articolo 18, dello Statuto dei lavoratori, come modificato dalla legge 92/2012, tali da renderne – ad avviso dei sostenitori del referendum – indispensabile l’abrogazione nell’ottica di ampliare l’ambito di applicabilità della tutela reintegratoria.

Nella sua originaria formulazione, l’intervento del legislatore era caratterizzato dall’automatica determinazione dell’indennità risarcitoria dovuta in caso di licenziamento illegittimo, sulla base di una formula matematica, al fine di superare un sistema imperniato sulla discrezionalità dell’organo giudicante.

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Con la sentenza n. 31866/2024, la Corte di Cassazione ha chiarito i confini della giusta causa di licenziamento connessa a condotte extralavorative.

Il fatto affrontato

La vicenda riguarda un lavoratore, conducente di autobus, licenziato per giusta causa dopo essere stato condannato alla pena detentiva di due anni e sei mesi di reclusione per violenza sessuale, maltrattamenti familiari e lesioni personali.

A seguito dell’impugnazione del licenziamento, con cui il dipendente ha sostenuto l’estraneità delle proprie condotte rispetto all’attività lavorativa, sia il Tribunale sia la Corte d’Appello confermavano la legittimità del recesso per giusta causa.

La Corte Territoriale ha ritenuto, infatti, che la commissione da parte del dipendente, in un lungo arco temporale, di plurimi fatti di significativa gravità (“l’atto di violenza sessuale nei confronti della moglie, i maltrattamenti con umiliazioni ed atteggiamenti prevaricatori verso la stessa, giudicati con il carattere della abitualità, nonché le lesioni personali“) integrasse la giusta causa di licenziamento.

Ciò anche in ragione della concreta possibilità che il lavoratore, conducente di autobus, potesse perdere l’autocontrollo e venir meno agli essenziali obblighi di rispetto e di diligenza nei confronti degli utenti del servizio o di terzi, atteso che le mansioni svolte comportavano la guida di veicoli nel traffico e il costante contatto con il pubblico.

Nel valutare la legittimità del licenziamento, la Corte d’Appello ha altresì tenuto conto della responsabilità e della posizione di garanzia assunta dal datore di lavoro nei confronti dei terzi circa la idoneità del personale che opera a contatto con il pubblico (ai sensi dell’art. 2043 c.c.), nonché nei confronti dei propri dipendenti (ex art. 2087 c.c.) ed ha valutato, infine, i precedenti disciplinari a carico del lavoratore medesimo connessi ad episodi di insubordinazione o perdita di controllo.

Il lavoratore impugnava la pronuncia resa dalla Corte Territoriale, proponendo ricorso avanti alla Suprema Corte sulla base di plurimi motivi.

La sentenza della Cassazione

Nel confermare la sentenza resa dalla Corte d’Appello, la Cassazione ha statuito che:

  • la condotta illecita extralavorativa può avere rilievo disciplinare poiché il lavoratore è tenuto non solo a fornire la prestazione richiesta, ma altresì, quale obbligo accessorio, a non porre in essere, fuori dall’ambito lavorativo, comportamenti tali da ledere gli interessi morali e materiali del datore di lavoro o compromettere il rapporto fiduciario con lo stesso; 
  • nel caso di specie, è quindi certamente sussumibile nella nozione legale di giusta causa di licenziamento una condotta extralavorativa, avente rilievo penale e sfociata in una sentenza irrevocabile di condanna, caratterizzata, sia pure nell’ambito di rapporti interpersonali o familiari, dal mancato rispetto della altrui dignità e da forme di violenza e sopraffazione fisica e psichica, non sporadiche, bensì abituali, specie ove le mansioni del lavoratore, incaricato di pubblico servizio il conducente di autobus, comportino costante contatto col pubblico ed esigano rigoroso rispetto verso gli utenti e capacità di controllo.

La Suprema Corte ha poi evidenziato che la Corte Territoriale, lungi dallo stabilire un automatismo tra la condanna penale e l’integrazione della giusta causa di licenziamento, ha ben colto le implicazioni negative dei fatti penalmente illeciti sulla regolare esecuzione della prestazione, nel rispetto degli obblighi facenti capo al lavoratore e posti a tutela degli utenti del servizio pubblico; del pari la Corte territoriale ha correttamente valutato – con apprezzamento di merito insindacabile in sede di legittimità – i precedenti disciplinari dell’odierno ricorrente, sintomatici di insubordinazione e perdita di controllo.

Viola le direttive (quand’anche implicite, ma chiare) del datore di lavoro il dipendente che, pur in posizione gerarchicamente sovraordinata rispetto al titolare delle credenziali di accesso ad un sistema informatico aziendale, se le faccia rivelare per farvi ingresso senza averne specifica autorizzazione: essendo sufficiente a rendere manifeste tali direttive la stessa protezione dei dati mediante credenziali di accesso”.​ Lo ha stabilito la Corte di cassazione, V sezione penale, n. 40295/2024.

La vicenda 

Un impiegato di una struttura alberghiera di Chianciano Terme aveva richiesto ad un’altra impiegata, a lui gerarchicamente subordinata, le chiavi di accesso al sistema informatico aziendale per l’archiviazione e la gestione a fini promozionali del data base clienti comprensivo di circa 90.000 schede individuali, accedendovi per scopi e finalità estranee al mandato ricevuto.​ Nei primi due gradi di giudizio era stata accertata la consumazione del reato di «Accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico», ex art. 615 ter, comma 1, Codice Penale.​ 

L’impiegato ricorreva in Cassazione sostenendo che non si fosse trattato di un accesso abusivo sia perché ne aveva il potere «nella veste di direttore e superiore della dipendente» a cui aveva chiesto le credenziali, «anche al fine di controllarne il lavoro», sia perché fino a poco tempo prima egli aveva accesso in prima persona a quei dati.​ 

La posizione della Corte di Cassazione 

La Corte di Cassazione ha stabilito che il reato di accesso abusivo a sistemi informatici (di cui all’art. 615-ter, comma 1, del Codice penale) si configura anche nel caso di utilizzo delle credenziali di accesso da parte del superiore gerarchico del dipendente che ha fornito le credenziali.​ 

I giudici della Corte Suprema, infatti, non hanno ritenuto convincente l’argomentazione del ricorrente che faceva leva sul suo potere di accedere a qualsiasi luogo aziendale per effettuare controlli su chi gli sia gerarchicamente subordinato. ​Nel caso di un sistema informatico protetto da credenziali, la Corte evidenzia che «ogni soggetto abilitato ha la sua ‘chiave’ personale (ovvero le credenziali d’accesso)». «Ciò perché si tratta di dati che, semplicemente, il titolare reputa debbano essere protetti, sia limitando l’accesso a chi venga dotato delle dette credenziali, sia, nel contempo, facendo sì che sia lasciata, in tal modo, traccia digitale dei singoli accessi e di chi li esegua».​ 

È perciò errato ritenere che l’imputato “sol per le sue mansioni, avesse automaticamente il potere di accedere a dati che, per contro, secondo la discrezionale valutazione del datore di lavoro, dovevano restare nella disponibilità di solo alcuni dipendenti (per quanto subordinati al ricorrente)”. ​ 

Per giunta, in tal modo il ricorrente ha fatto “risultare falsamente che l’accesso fosse stato operato dalla dipendente che, incautamente, gli aveva rivelato le sue credenziali”.​ 

Altri insights correlati: 

La Corte di Cassazione, con la recente ordinanza n. 26765 del 15 ottobre 2024, ha respinto il ricorso di un informatore scientifico del farmaco, licenziato dopo essere stato sorpreso dal datore di lavoro a mentire sulle visite effettuate ad alcuni medici indicate nel proprio resoconto mensile. 

Il caso  

La vicenda trae origine dal ricorso proposto da un informatore farmaceutico contro il licenziamento per giusta causa inflittogli dalla società datrice di lavoro. Il dipendente, infatti, era stato licenziato in tronco, ai sensi dell’art. 2119 c.c., per aver falsificato il rapporto mensile relativo alle visite effettuate presso i medici, riportando numeri di visite effettuate ben superiori a quelli effettivi.  

La Società farmaceutica aveva incaricato un investigatore privato per verificare la veridicità delle informazioni fornite del proprio dipendente: le indagini condotte avevano dimostrato che il dipendente aveva mentito, riportando attività non realmente svolte.  

Dalle indagini espletate, in particolare, era risultato che, per tre giorni consecutivi, l’informatore aveva visitato un numero di medici di gran lunga inferiore a quello rendicontato nel rapporto mensile inviato alla società datrice di lavoro e dichiarato di essersi recato in località che non aveva effettivamente visitato. Persino gli orari di visita indicati dal dipendente risultavano non veritieri in quanto, nei medesimi orari, dalle indagini era emerso che il lavoratore era impegnato in attività personali e ricreative. 

Gli esiti del giudizio di merito 

Il Tribunale e la Corte d’Appello di Catanzaro avevano confermato il licenziamento, ritenendo comprovata la lesione irrimediabile del rapporto fiduciario tra il dipendente e la società.  

In particolare, i giudici di merito avevano valutato “grave” la condotta del dipendente, anche in considerazione del fatto che proprio la rendicontazione mensile presentata dal lavoratore era l’unico mezzo a disposizione del datore di lavoro per monitorare la sua attività da informatore scientifico, dal momento che lo stesso godeva di ampia autonomia di movimento e organizzazione. 

Inoltre, era stato evidenziato che tale documentazione era anche necessaria per l’adempimento degli obblighi comunicativi dell’azienda nei confronti dell’Autorità di settore, AIFA. Conseguenzialmente, a causa delle informazioni non veritiere riportate dal dipendente, anche la società farmaceutica si era trovata, incolpevolmente, a riportare dati non corretti all’AIFA sul numero dei sanitari visitati e il numero medio delle interviste effettuate dai propri informatori scientifici. 

Il ricorso del lavoratore e la decisione della Corte di Cassazione 

Il lavoratore, ritenendo sproporzionato il licenziamento, ha impugnato la sentenza della Corte d’Appello, sostenendo che la sua condotta non poteva giustificare un licenziamento, trattandosi al più di una mera “alterazione di cartellino o badge”, punita dal CCNL Chimici Farmaceutici con una sanzione conservativa. 

La Cassazione invece ha avallato la decisione della Corte d’Appello, sostenendo che la condotta del lavoratore integrava non una alterazione di badge, ma una più grave falsificazione di un rapporto informativo sull’attività lavorativa in concreto prestata presso i singoli medici e nelle singole località, punibile con il licenziamento in tronco ai sensi del CCNL. 

In conclusione, la Corte ha respinto il ricorso del lavoratore condannandolo alla rifusione delle spese di giudizio.