La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 21453 del 6 luglio 2022, ha statuito che, nell’ambito di un trasferimento d’azienda, il lavoratore riammesso in servizio a seguito dell’accertamento della nullità del termine apposto al contratto di lavoro deve essere considerato trasferito ex lege alle dirette dipendenze del cessionario.

I fatti di causa

La fattispecie oggetto dell’ordinanza in commento concerne l’efficacia di un trasferimento d’azienda nei confronti di un lavoratore assunto con contratto a termine dal cedente e riammesso in servizio alle dipendenze del cessionario successivamente al trasferimento stesso.

Sia il Tribunale sia la Corte d’Appello di Milano hanno ritenuto che il lavoratore – per gli effetti ripristinatori della sentenza di accertamento della nullità del termine apposto al contratto di lavoro – dovesse ritenersi parte integrante dell’azienda al momento della cessione e, quindi, trasferito automaticamente alle dirette dipendenze del cessionario.

I giudici di merito hanno, infatti, affermato che, anche se al momento del trasferimento d’azienda il rapporto di lavoro non era, di fatto, in essere a causa della scadenza del termine apposto al contratto, il rapporto di lavoro – convertito a tempo indeterminato a seguito della sentenza dichiarativa della nullità del termine – era, in ogni caso, da considerarsi sussistente «de iure anche se non de facto».

Avverso la decisione della Corte d’Appello di Milano proponeva ricorso la società datrice di lavoro.

L’ordinanza della Suprema Corte

La Corte di Cassazione, nel rigettare il ricorso promosso dalla società cessionaria, ha statuito che, in tema di contratti di lavoro a tempo determinato, la sentenza che accerta la nullità della clausola appositiva del termine e ordina la ricostituzione del rapporto illegittimamente interrotto ha natura dichiarativa e non costitutiva.

Ne consegue che la conversione in un rapporto di lavoro a tempo indeterminato opera con effetto “ex tunc”, ovverosia a far data dalla illegittima stipulazione del contratto a termine.

Una volta accertata l’inefficacia del termine apposto al contratto di lavoro del dipendente, il rapporto di lavoro è pertanto da ritenersi a tempo indeterminato ab origine con conseguente automatica prosecuzione del rapporto di lavoro alle dipendenze del cessionario ai sensi dell’art. 2112 c.c..

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L’infezione virale contratta sul luogo di lavoro costituisce evento patologico coperto dall’INAIL e la prova del nesso eziologico può essere fornita in giudizio anche mediante presunzioni semplici

Con l’ordinanza 10 ottobre 2022, n. 29435, la Suprema Corte, in riforma della sentenza della Corte d’Appello di Palermo, ha fornito una lettura diversa circa il tema dell’assetto probatorio nella fattispecie oggetto di contenzioso.

I fatti di causa

Il caso sottoposto alla Suprema Corte trae origine dal ricorso proposto dinanzi al Tribunale di Agrigento in primo grado e dinanzi alla Corte d’Appello di Palermo in secondo grado da un infermiere professionale impiegato presso una RSA, al fine di vedersi riconoscere la copertura INAIL e quindi l’indennizzo in rendita o in capitale ai sensi del d.p.r. 1124/1965 in ragione dell’asserita contrazione dell’epatite C in occasione di servizio, assumendo che ciò fosse dipeso dalla plausibile e prolungata esposizione ai relativi fattori patogeni.

La Corte territoriale, confermando la statuizione del giudice di primo grado, aveva inizialmente respinto la richiesta del lavoratore in quanto, prendendo le mosse dalla possibile origine plurifattoriale della malattia, riteneva che la prova della causa di lavoro e della speciale nocività dell’ambiente di lavoro gravante sul lavoratore non fosse stata raggiunta, aggiungendo che la valutazione da compiere non riguardava “il nesso causale dipendente dagli effetti patologici dell’infortunio professionale che si sia sicuramente verificato, vertendo la questione sulla certa individuazione del fatto all’origine della malattia”.

Aggiungeva la Corte di merito che il ricorrente stesso non aveva memoria di eventi specifici avvenuti durante il lavoro, quali punture accidentali, non bastando, ai fini del riconoscimento delle tutele invocate, l’avere ordinariamente medicato e trattato pazienti epatopatici, in quanto, la valenza dimostrativa di ciò, oltre a non poter ricorrere a favore della parte che aveva reso tali dichiarazioni, era in più neutralizzata dall’accertamento svolto in altra causa in ordine ad una pregressa infezione da virus epatite B, circostanza quest’ultima che avrebbe imposto «la prova rigorosa dell’evento infettante in occasione di lavoro».

La Corte aggiungeva infine che non poteva essere utile alla prova richiesta il ”verbale di visita della Commissione medica ospedaliera“ formato in sede di procedimento per l’indennizzo ai sensi della L. 210/1992 in quanto quest’ultimo “esprime un giudizio (di derivazione professionale della malattia e di esposizione a rischio) senza tuttavia rendere noti gli elementi fattuali su cui è basato”.

I principi richiamati dalla Corte di Cassazione

Con l’ordinanza in commento, la Cassazione, in riforma della sentenza della Corte d’Appello di Palermo, richiama un indirizzo risalente e mai contraddetto secondo cui «nell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, costituisce causa violenta anche l’azione di fattori microbici o virali che, penetrando nell’organismo umano, ne determinino l’alterazione dell’equilibrio anatomo – fisiologico, sempreché tale azione, pur se i suoi effetti si manifestino dopo un certo tempo, sia in rapporto con lo svolgimento dell’attività lavorativa, anche in difetto di una specifica causa violenta alla base dell’infezione» con l’aggiunta che «la relativa dimostrazione può essere fornita in giudizio anche mediante presunzioni semplici» (C. Cass., sez. lav. n. 7306/2000, C. Cass., sez. lav. n. 20941/2004; C. Cass., sez. lav. n. 6899/2004).

Nel caso di specie dunque, la Corte d’Appello, con una motivazione non sempre coerente e lineare, in cui veniva richiamata la necessità di una «certa individuazione del fatto origine della malattia», si sarebbe disallineata dall’orientamento sopra richiamato, collocando il punto di caduta ultimo del proprio ragionamento nella conclusione per cui si sarebbe infine dovuta dare, anche alla luce della pregressa Epatite B occorsa al lavoratore, «la prova rigorosa dell’evento infettante in occasione di lavoro».

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La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 26246 del 6 settembre 2022, ha risolto il profondo contrasto giurisprudenziale in tema di decorrenza della prescrizione dei crediti del lavoratore nelle aziende con più di quindici dipendenti, chiarendo che la prescrizione, dopo la legge n. 92/2012 (c.d. “Riforma Fornero”), non decorre più in costanza di rapporto di lavoro.

I fatti di causa

Alcuni lavoratori di una società con i requisiti dimensionali di cui all’art. 18 Stat. Lav. hanno adito il giudice del lavoro al fine di ottenere l’accertamento del diritto a percepire differenze retributive, eccedenti la prescrizione quinquennale, relative al lavoro straordinario notturno dagli stessi prestato.

Nel primo grado di giudizio, il Tribunale di Brescia ha rigettato le domande dei ricorrenti, statuendo che, anche a seguito delle modifiche all’art. 18 Stat. Lav. introdotte della Riforma Fornero, il rapporto di lavoro continui ad essere tutelato dalla stabilità reale, con il conseguente decorso del termine di prescrizione in costanza di rapporto.

La Corte d’Appello bresciana ha confermato la decisione del Tribunale, negando conseguentemente il diritto dei ricorrenti alle differenze retributive eccedenti la prescrizione quinquennale.

Con un unico motivo di ricorso, i dipendenti hanno impugnato la sentenza d’appello deducendo la violazione degli artt. 2935, 2948, n. 4 c.c., 18 legge n. 300/1970, 36 Cost., per avere la Corte territoriale errato, alla luce dell’insegnamento della Corte Costituzionale (sentenze n. 62 del 1966, n. 143 del 1969, n. 174 del 1972) e della giurisprudenza di legittimità, nel confermare la vigenza del regime di stabilità del rapporto anche dopo la modifica della disciplina dei licenziamenti con le riforme della legge n. 92/2012 e del D.lgs. 23/2015 (c.d. “Jobs Act”).

La sentenza

La Suprema Corte di Cassazione, nell’accogliere il ricorso promosso dai dipendenti, ha statuito, preliminarmente, che, in linea con l’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2948, n. 4 c.c., la prescrizione decorre in corso di rapporto esclusivamente quando la reintegrazione sia la sanzione prevedibile “contro ogni illegittima risoluzione”.

Secondo i Giudici di legittimità, le modifiche apportate dalla Riforma Fornero e dal Jobs Act alla disciplina dei licenziamenti hanno fatto venir meno tale stabilità, avendo determinato il passaggio da un’automatica applicazione della tutela reintegratoria ad ogni ipotesi di illegittimità del licenziamento ad un’applicazione selettiva delle tutele.

Su tali presupposti, la Suprema Corte ha statuito, pertanto, che il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, così come modulato per effetto della Riforma Fornero e del Jobs Act, mancando dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e di una loro tutela adeguata, non è assistito da un regime di stabilità.

Da ciò consegue che, per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della legge n. 92/2012 (18 luglio 20012), il termine di prescrizione decorre, anche per i lavoratori dipendenti da aziende con i requisiti dimensionali di cui all’art. 18 Stat. Lav., dalla cessazione del rapporto di lavoro.

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La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 9800 del 25 marzo 2022, ha stabilito che la procedura di licenziamento collettivo – se la comunicazione di cui all’art. 4, co. 9, L. n.223/1991 non indica correttamente quali sono state le modalità di applicazione dei criteri di scelta dei lavoratori interessati – è illegittima e, di conseguenza, il licenziamento intimato all’esito deve essere annullato. 

I fatti di causa

La Corte d’appello di Reggio Calabria, in riforma della sentenza di primo grado, dichiarava illegittimo il licenziamento collettivo intimato dalla società datrice di lavoro ai ricorrenti con comunicazione ex art. 4, co. 9, L. n.223/1991.

La Corte territoriale dichiarava risolto il rapporto di lavoro intercorso tra le parti, condannando la società al pagamento di una indennità risarcitoria pari a 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.  Ciò in quanto, a suo dire, il licenziamento in questione risultava affetto da violazione di carattere formale consistente nella mancata indicazione nella comunicazione dei punteggi concreti attribuiti a ciascun lavoratore e dei dati fattuali relativi ai carichi di famiglia, dei punteggi astratti previsti in relazione a ciascun criterio nonché dei dati relativi all’anzianità di servizio di ciascun lavoratore.

Per la cassazione della decisione proponevano ricorso sei degli originari lavoratori sulla base di quattro motivi; la società intimata resisteva con tempestivo controricorso. Il Procuratore generale concludeva per l’accoglimento del primo motivo di ricorso, assorbiti gli altri.

La decisione della Corte di Cassazione

Secondo la Corte di Cassazione, la mancata puntuale indicazione, nella comunicazione ex art. 4, co. 9, L. n. 223/91, delle modalità con cui sono stati applicati i criteri di scelta dei lavoratori da licenziare, non permette al lavoratore di comprendere per quale ragione il licenziamento abbia interessato proprio lui e non altri colleghi e, quindi, ostacola la contestazione del recesso datoriale. Ciò comporterebbe un’ipotesi di illegittimità della procedura legislativamente prescritta, poiché tale mancanza non integrerebbe una mera irregolarità formale ma comporterebbe una vera e propria violazione dei criteri di scelta. L’illegittimità de quo, a parere della Corte, non può che determinare l’annullamento del licenziamento e la conseguente condanna del datore di lavoro, ai sensi dell’art. 18, comma 4, dello Statuto dei Lavoratori alla reintegrazione del posto di lavoro e al pagamento di una indennità risarcitoria in misura non superiore alle 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

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La Corte di Cassazione, con sentenza n. 8628 del 16 marzo 2022, ha statuito che per la validità del licenziamento per superamento del periodo di comporto “per sommatoria” occorre la specifica indicazione delle giornate di assenza per malattia, alle quali non sono computabili le assenze ingiustificate.

I fatti di causa

Una dipendente della Prefettura di Udine aveva impugnato il licenziamento intimatole per superamento del periodo di comporto, eccependo che nell’atto espulsivo non vi era l’indicazione corretta dei giorni conteggiati e sommati.

Il Tribunale adito, nell’accogliere il ricorso della lavoratrice, aveva dichiarato il licenziamento illegittimo e condannato il Ministero alla sua reintegra.

Il Ministero aveva così impugnato la sentenza dinanzi la Corte di Appello di Trieste, la quale confermava la pronuncia di primo grado, avvallando il principio per cui se il datore di lavoro indica nel provvedimento di recesso le giornate di assenza del lavoratore, non può successivamente modificarle o aggiungerne altre.

Nel caso di specie, il periodo indicato dal Ministero per assenza per malattia era di 472 giorni complessivi (considerando il c.d. comporto per sommatoria) e, dunque, era inferiore al periodo di comporto previsto dalla contrattazione collettiva e fissato in 484 giorni. Ciò in quanto, nel periodo indicato dal Ministero erano stati ricompresi anche 12 giorni di assenza ingiustificata della lavoratrice e, dunque, non rientranti nel calcolo del superamento del periodo di comporto.

Inoltre, per la Corte di Appello a nulla valeva la dimostrazione in giudizio da parte del Ministero per cui anche i giorni di assenza ingiustificata erano di fatto riconducibili alla malattia della dipendente. Al riguardo, secondo la Corte di Appello, ciò che rilevava era la “incontrovertibilità” dei periodi indicati nella comunicazione di licenziamento, sulla base del principio di immodificabilità dei motivi posti alla base del recesso.

Il Ministero soccombente impugnava così la sentenza della Corte d’Appello in cassazione.

La decisione della Corte di Cassazione

Investita della questione, la Corte di Cassazione conferma le pronunce dei giudici di merito. In particolare, la Corte di Cassazione conferma l’accertamento della Corte territoriale per cui i 12 giorni di assenza ingiustificata contestati non erano computabili ai fini del superamento del periodo di comporto essendo riferiti ad una diversa fattispecie.

A tal proposito, la Corte di Cassazione osserva che, diversamente da quanto preteso dal Ministero, la Corte d’Appello non ha inteso affermare che in caso di superamento del periodo di comporto il datore di lavoro debba indicare già nella lettera di licenziamento i singoli giorni di malattia considerati per il calcolo del comporto e, dunque, con la preclusione di una successiva precisazione da parte del datore medesimo.

Sul punto, la Cassazione afferma che il datore di lavoro, se specifica le assenze prese in considerazione, non può ex post aggiungere ovvero modificare le giornate considerate per il superamento del periodo di malattia consentito della contrattazione collettiva.

Secondo la Corte, infatti, in tema di licenziamento per superamento del comporto, “il datore di lavoro non deve specificare i singoli giorni di assenza, potendosi ritenere sufficienti indicazioni più complessive, anche sulla base del novellato articolo 2 della legge 604/1966, che impone la comunicazione contestuale dei motivi, fermo restando l’onere di allegare e provare compiutamente in giudizio i fatti costitutivi del potere esercitato; tuttavia, ciò vale per il comporto cosiddetto “secco” (ovvero un unico ininterrotto periodo di malattia), ove i giorni di assenza sono facilmente calcolabili anche dal lavoratore; invece, nel comporto c.d per sommatoria (plurime e frammentate assenze) occorre una indicazione specifica delle assenza computate, in modo da consentire la difesa al lavoratore”. In definitiva, a parere della Corte di Cassazione, anche nel caso di licenziamento per superamento del periodo di comporto per sommatoria vale la regola dell’immodificabilità delle ragioni poste alla base del recesso. Regola questa che costituisce una garanzia del lavoratore il quale, altrimenti, non avrebbe la possibilità di contestare il provvedimento espulsivo intimato nei suoi confronti.

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