La Corte di Cassazione, con ordinanza del 4 luglio 2024, n. 18296, ha affermato che il dipendente che adotta atteggiamenti ostruzionistici rispetto all’operato aziendale lede il vincolo fiduciario con il datore di lavoro in modo irrimediabile ed è quindi passibile di licenziamento.

La vicenda

Il caso riguardava, in particolare, un dipendente di un’azienda di servizi ambientali, con mansioni di autista addetto al conferimento dei rifiuti ai centri di trattamento con mezzi di grossa portata, che aveva rifiutato di eseguire i suoi doveri rientrando in azienda con il mezzo ancora carico. Questo comportamento aveva esposto la società datrice di lavoro a potenziali sanzioni amministrative e violazioni della normativa ambientale, nonché alle contestazioni del Comune, unico committente.

Il dipendente si era rifiutato infatti di scaricare i rifiuti, adducendo inizialmente ragioni legate ai ritardi nelle operazioni di conferimento dei rifiuti stessi, e, successivamente, a motivi di salute.

Nonostante i ripetuti inviti del suo superiore a procedere con lo scarico o attendere un cambio di autista, il lavoratore rientrava in azienda senza aver completato il lavoro.

La posizione della Corte d’Appello

Il lavoratore aveva sostenuto che, in base al CCNL per i dipendenti delle società di servizi ambientali ed al Codice disciplinare aziendale, l’insubordinazione era punibile solo con sanzioni conservative, quali la sospensione, riservando il licenziamento ai casi più gravi, come quelli accompagnati da “vie di fatto”.

La Corte di Appello, riformando la sentenza di primo grado, aveva invece ritenuto la condotta del lavoratore non riconducibile alla mera insubordinazione, ma ad un grave inadempimento del lavoratore, aggravato da implicazioni amministrative e legali per la società. Tale comportamento, dunque, era tale da integrare una “giusta causa” di licenziamento.

Il dipendente ha quindi impugnato la sentenza dinanzi la Suprema Corte di Cassazione.

La decisione della Cassazione

La Corte di Cassazione ha affermato che in tema di licenziamento disciplinare, la nozione di insubordinazione non può essere limitata al rifiuto di adempimento delle disposizioni dei superiori, ma ricomprende qualsiasi comportamento atto a pregiudicare l’esecuzione e il corretto svolgimento delle suddette disposizioni nel quadro dell’organizzazione aziendale (Cass. n. 13411/2020).

Nel caso di specie, la Suprema Corte ha ritenuto il comportamento del lavoratore più grave di una semplice insubordinazione. Secondo la Corte, infatti, il rifiuto intenzionale del lavoratore, unito alla sua decisione di non attendere neanche il cambio di autista e di rientrare in azienda con il carico di rifiuti, ostacolando in tal modo il conferimento dei rifiuti ed esponendo il datore di lavoro a potenziali sanzioni amministrative ambientali, integrava una grave violazione della fiducia e degli obblighi contrattuali, tali da giustificarne il licenziamento per giusta causa.

In conclusione, la Suprema Corte ha respinto il ricorso del lavoratore, ritenendo legittimo il licenziamento imposto dall’azienda.

Con l’ordinanza 26440 del 10 ottobre 2024, la Corte di cassazione, Sezione Lavoro, confermando la legittimità del licenziamento irrogato nei confronti di un dipendente che si era rivolto in modo sgarbato e scurrile nei confronti di un cliente, torna a ribadire i confini della verifica in sede di legittimità della “giusta causa” di recesso.

La vicenda giudiziaria ha avuto origine dal licenziamento disciplinare inflitto nei confronti di un dipendente, con mansioni di addetto al banco macelleria di un supermercato, al quale il datore di lavoro aveva contestato di essersi rivolto nei confronti di un cliente anziano con toni aggressivi e volgari.

Mentre il Tribunale di primo grado aveva accolto l’impugnativa del licenziamento proposta dal dipendente, la Corte di appello di Cagliari, invece, riformando la decisione di primo grado, aveva confermato la legittimità del provvedimento espulsivo.

Nel caso di specie, la Corte territoriale aveva ritenuto che il comportamento del dipendente costituisse una grave violazione dei suoi obblighi contrattuali, in particolare dell’obbligo di «usare modi cortesi col pubblico e di tenere una condotta conforme ai civici doveri», passibile di licenziamento disciplinare ai sensi dell’articolo 215 del contratto collettivo per i dipendenti da aziende del Terziario, della Distribuzione e dei Servizi applicato al rapporto di lavoro.

La Corte aveva sottolineato, in particolare, la gravità della condotta tenuta dal dipendente in quanto, in tale occasione, l’addetto al bancone, non solo non aveva chiesto scusa al cliente, peraltro anziano, ma aveva proseguito la discussione con toni sempre più accesi, dando luogo ad «uno spettacolo indecoroso e anche un po’ preoccupante». Nel valutare la congruità del provvedimento espulsivo, la Corte di appello, aveva inoltre preso in considerazione i precedenti disciplinari contestati al dipendente nei due anni precedenti che, seppur non specifici, evidenziavano una reiterata inosservanza da parte di quest’ultimo delle regole aziendali, tale da non rendere più sostenibile la prosecuzione del rapporto di lavoro.

Con l’ordinanza in commento, la Cassazione, rigettando il ricorso proposto dal dipendente avverso la sentenza della Corte cagliaritana, ha colto l’occasione per consolidare il proprio orientamento e ribadire alcuni principi vigenti in materia di recesso per giusta causa ex articolo 2119 del Codice civile.

In particolare, la Corte di legittimità ha osservato che la “giusta causa”, intesa come fatto che non consente la prosecuzione neanche provvisoria del rapporto di lavoro, rientra tra le cosiddette clausole generali, ossia quelle disposizioni normative a contenuto limitato e generico, che richiedono di essere specificate da parte del giudice in sede interpretativa «mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama».

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L’invio del certificato medico tramite fax è una valida modalità di comunicazione della malattia da parte del lavoratore, in quanto espressamente prevista nel regolamento aziendale

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 25661 del 25 settembre 2024, ha ritenuto illegittimo il licenziamento di un lavoratore che, in ferie all’estero, aveva comunicato la propria assenza per malattia, tramite fax, affermando che tale modalità fosse conforme al regolamento aziendale. La Corte ha sottolineato come la comunicazione della malattia potesse avvenire anche in forme diverse dalla lettera raccomandata, se previsto dal regolamento aziendale.

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La comunicazione della malattia al datore di lavoro può essere validamente effettuata tramite fax, qualora tale modalità sia espressamente prevista dal regolamento aziendale. In tal caso, si presume che il fax sia stato correttamente ricevuto dal datore di lavoro qualora il lavoratore riesca a documentare, mediante rapporti di trasmissione, il buon esito della comunicazione, anche in assenza di tracce sui server aziendali. La condotta del lavoratore riguardo la comunicazione della malattia all’estero, sebbene possa essere considerata non del tutto diligente, non è sufficiente a configurare una giusta causa di licenziamento, qualora non venga dimostrata la consapevolezza del lavoratore circa il mancato buon esito della trasmissione.

I fatti di causa

Il caso esaminato dalla Corte di Cassazione riguarda il licenziamento per giusta causa per “assenza ingiustificata di oltre quattro giorni” irrogato nei confronti di un lavoratore che, mentre si trovava in Romania per ferie, si era ammalato. Il dipendente ha sostenendo la giustificatezza della propria assenza, affermando che aveva contratto la malattia durante il periodo di ferie e, pertanto, aveva inviato il certificato medico tramite fax, in linea con quanto previsto dal regolamento aziendale.

A seguito del licenziamento, il lavoratore ha, dunque, impugnato il provvedimento dinanzi al Tribunale di Treviso, chiedendo l’annullamento del recesso per insussistenza del fatto contestato.

L’argomento principale alla base degli scritti difensivi della società consisteva nella presunta inadeguatezza della comunicazione di malattia. Nella specie, l’azienda ha sostenuto che il lavoratore non aveva rispettato le procedure previste dal regolamento aziendale, che, secondo la società, richiedevano sia una comunicazione più “formale”, tipicamente attraverso lettera raccomandata, sia un preavviso telefonico. Di contrario avviso era il lavoratore, il quale ha replicato che l’invio del fax fosse una modalità consentita dal regolamento stesso e che il certificato era stato trasmesso correttamente, come dimostrato dal rapporto di trasmissione.

I vari gradi di giudizio

Durante la fase sommaria, il Tribunale di Treviso ha accolto l’impugnazione del lavoratore, annullando il licenziamento e ordinandone la reintegrazione. Inoltre, condannava la società al pagamento «dell’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento fino all’effettiva reintegrazione».

Avverso la decisione del Tribunale, l’azienda ha successivamente depositato il proprio ricorso dinanzi la Corte d’Appello di Venezia, la quale ha accolto parzialmente il gravame, confermando l’illegittimità del licenziamento e la reintegrazione, ma rideterminando l’indennità risarcitoria in dodici mensilità.

La Corte ha, infatti, sostenuto che l’articolo 40 del contratto collettivo applicato prevede l’assenza ingiustificata pari o superiore a quattro giorni come causa di licenziamento disciplinare, includendo nella definizione di assenza ingiustificata anche la tardiva comunicazione ed il ritardo nell’invio del certificato medico.

In aggiunta a quanto sopra, secondo il regolamento aziendale era preciso dovere del lavoratore avvertire il datore di lavoro il giorno stesso dell’evento, oltre a procedere all’invio del certificato medico.

Inoltre, è emerso che il dipendente non aveva documentato alcun impedimento che giustificasse la mancata comunicazione; infatti, l’unico messaggio di testo inviato risaliva a giorni successivi all’inizio dell’assenza contestata.

Un ultimo aspetto significativo esaminato dalla Corte d’Appello ha riguardato la mancanza di allegazione da parte del dipendente circa un possibile impedimento di comunicazione telefonica. Sul punto, la Corte ha osservato che «il lavoratore non ha documentato un impedimento di tale gravità da escludere radicalmente la possibilità di un preventivo serio tentativo di contatto con il responsabile aziendale». Infine, ha sottolineato che «il lavoratore ha tenuto una condotta formalmente ossequiosa degli obblighi contrattuali, ma limitandosi ad adempiervi in forma minimale».

Conseguentemente, la Corte ha rilevato che il lavoratore non aveva rispettato l’obbligo di avvisare telefonicamente il datore di lavoro, contravvenendo così al regolamento aziendale e alle regole di diligenza richiesta nell’ambito di un rapporto di lavoro subordinato.

Avverso la decisione della Corte di Appello, l’azienda ha presentato ricorso per Cassazione, articolando cinque motivi di impugnazione.

Il primo motivo, si è basato sulla presunta nullità della sentenza per avere la Corte d’Appello fornito affermazioni contraddittorie ed inconciliabili tra loro. In particolare, i giudici del reclamo avrebbero «dapprima affermato che il comportamento del lavoratore non era stato lineare né improntato alle basilari regole di sollecita diligenza richieste dal rapporto di lavoro subordinato» e, successivamente, «escluso la sussistenza della giusta causa».

La Corte di Cassazione, respingendo la predetta tesi, ha affermato che la contraddittorietà era solo apparente, in quanto la Corte d’Appello aveva ritenuto sufficiente sia la modalità di invio tramite fax, in quanto prevista dal regolamento aziendale, sia la prova della sua ricezione nel rapporto di trasmissione prodotto in giudizio dal lavoratore, in quanto analogo fax risultava spedito all’INPS e da essi regolarmente ricevuto.

Con il secondo motivo, la società ha impugnato la decisione della Corte, per aver ritenuto “idonea” la modalità di trasmissione tramite fax.

La Corte di Cassazione ha ritenuto il motivo infondato in quanto «il fax era una modalità prevista dal regolamento aziendale» e «la norma di legge non esclude modalità equivalenti secondo forme d’uso, che ben possono essere previste appunto da un regolamento aziendale».

Con il terzo motivo, la società ha sostenuto che la Corte territoriale ha contraddittoriamente «dapprima affermato che solo in giudizio il datore di lavoro aveva potuto verificare il contenuto della trasmissione del fax, ossia la certificazione medica, poi affermato che non vi era prova di falsificazione o alterazione del messaggio».

Anche in questo caso, la Cassazione ha respinto le argomentazioni dell’azienda, affermando che il fax era da considerarsi un valido mezzo di comunicazione, così come previsto dal regolamento aziendale, sicché «la conoscenza del destinatario è irrilevante ai fini del fatto oggetto della contestazione disciplinare»

Con il quarto motivo la società ha contestato che la Corte territoriale ha presunto il corretto arrivo del fax partendo dall’unico dato disponibile circa l’effettivo invio dello stesso.

La Cassazione ha affermato che «l’obbligo del lavoratore si esaurisce nella verifica del buon esito della trasmissione del fax», affermando dunque che «la condotta del lavoratore è quindi esente da addebiti».

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L’uso di dati personali non è soggetto all’obbligo di informazione ed alla previa acquisizione del consenso del titolare quando i dati stessi vengano raccolti e gestiti nell’ambito di un processo”. Ciò “purché i dati siano inerenti al campo degli affari e delle controversie giudiziarie che ne scrimina la raccolta, non siano utilizzati per finalità estranee a quelle di giustizia in ragione delle quali ne è avvenuta l’acquisizione e sussista il provvedimento autorizzatorio”.

Lo ha ribadito la Corte di Cassazione, ordinanza n. 24797/2024, del 16 settembre 2024.

Nel caso di specie, alcuni dipendenti avevano – ciascuno nell’ambito del proprio contenzioso avente ad oggetto questioni inerenti alle loro posizioni lavorative – depositato in giudizio la registrazione di una conversazione avvenuta diversi anni prima tra un loro collega ed alcuni dirigenti della società datrice di lavoro. Registrazione che era stata effettuata all’insaputa, e senza il consenso, dei partecipanti. I dirigenti coinvolti proponevano reclamo all’Autorità Garante per la protezione dei dati personali che respingeva la richiesta constatando che la registrazione, e quindi la connessa attività di trattamento dei dati personali, era stata effettuata per finalità connesse alla contestazione di addebiti nell’ambito del rapporto di lavoro. A questo punto, i dirigenti si rivolgevano al giudice ordinario.

Oltre alla consolidata giurisprudenza nazionale formatasi sul tema, la Cassazione richiama anche la Corte di giustizia (UE) che, con sentenza del 2 marzo 2023, C-268/21 – Norra Stockholm Bygg AB contro Per Nycander AB, chiariva che qualora dati personali di terzi vengano utilizzati in un giudizio è il giudice nazionale che deve ponderare, con piena cognizione di causa e nel rispetto del principio di proporzionalità, gli interessi in gioco e che “tale valutazione può, se del caso, indurlo ad autorizzare la divulgazione completa o parziale alla controparte dei dati personali che gli sono stati così comunicati, qualora ritenga che una siffatta divulgazione non ecceda quanto necessario al fine di garantire l’effettivo godimento dei diritti che i soggetti dell’ordinamento traggono dall’articolo 47 della Carta“.

E, ricorda la Corte di Cassazione nella pronuncia in commento, gli “artt. 17 e 21 del GDPR rendono palese che nel bilanciamento degli interessi in gioco il diritto a difendersi in giudizio può essere ritenuto prevalente sui diritti dell’interessato al trattamento dei dati personali”.

In caso di infortuni sul lavoro, la nomina di un preposto non è sufficiente per evitare la condanna del datore di lavoro. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, sezione penale, sentenza 10 giugno 2024, n. 23049.

La Suprema Corte ha, infatti, chiarito che il datore di lavoro deve vigilare per prevenire l’instaurazione di prassi contrarie alla legge che possano mettere in pericolo i lavoratori. Pertanto, in caso di incidente o infortunio, l’ignoranza del datore di lavoro non vale ad escluderne la colpa per omessa vigilanza sul comportamento del preposto.

I fatti

Nel caso sottoposto all’attenzione della Corte, un lavoratore riportava lesioni gravi e permanenti a seguito dell’utilizzo di reagenti chimici durante lo svolgimento di operazioni di pulizia di un macchinario. Nello svolgere tale attività emergeva che il lavoratore non era dotato di adeguati dispositivi di protezione e non aveva ricevuto la necessaria formazione.

Il Tribunale adito in primo grado condannava il datore di lavoro, riconoscendo l’esistenza del nesso causale tra la condotta colposa e l’evento delittuoso e sottolineando che l’evento lesivo si sarebbe potuto scongiurare designando come preposto un soggetto dotato di maggiore competenza.

La Corte d’Appello, riformando la sentenza di condanna di primo grado, da un lato assolveva il datore di lavoro osservando che il soggetto preposto era dotato di comprovata esperienza, e quindi idoneo alle mansioni ed al ruolo assegnatogli e, dall’altro, inquadrava come eccentrica ed imprevedibile la condotta del lavoratore.

La decisione della Corte di cassazione

La Corte di Cassazione, annullando la decisione della Corte d’Appello che non aveva tenuto conto del fatto che il lavoratore coinvolto non aveva ricevuto una adeguata formazione, rileva che, data la natura delle sue mansioni, non avrebbe comunque dovuto essere coinvolto in operazioni che prevedessero l’uso di sostanze chimiche.

La Suprema Corte, anche precisando che il datore di lavoro ai fini della sicurezza è tenuto a garantire la corretta formazione dei lavoratori indipendentemente dall’esperienza operativa che possano avere nel tempo acquisito, ha riconosciuto profili di responsabilità in capo al datore di lavoro per mancata vigilanza sull’operato del preposto.

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