Con l’ordinanza n. 10663 del 19 aprile 2024, la Cassazione ha affermato che è onere del datore di lavoro provare il regolare pagamento della retribuzione.
Il lavoratore ha promosso ricorso per decreto ingiuntivo al fine di ottenere la condanna della società al pagamento di quanto indicato nella busta paga di novembre 2015.
Nel primo grado di giudizio, il Tribunale ha accertato la debenza del credito a favore del lavoratore.
La Corte d’Appello, adita dalla società, ha confermato la pronuncia di primo grado, statuendo che il datore di lavoro non avesse assolto il proprio onere probatorio relativo alla dimostrazione in giudizio dell’avvenuto pagamento della somma ingiunta.
La Suprema Corte di Cassazione – nel confermare la pronuncia di merito – ha preliminarmente rilevato che, una volta accertata la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, la prova rigorosa del pagamento della retribuzione spetta al datore di lavoro, il quale se non può provare di aver corrisposto la retribuzione dovuta al dipendente mediante la normale documentazione liberatoria rappresentata dalle regolamentari buste paga recanti la firma del lavoratore, deve fornire idonea documentazione dei relativi pagamenti che abbia in effetti eseguito in relazione ai singoli crediti vantati dal dipendente.
Secondo i giudici di legittimità, consegnare ai lavoratori dipendenti all’atto della corresponsione della retribuzione un prospetto contenente l’indicazione di tutti gli elementi costitutivi della retribuzione, non attiene alla prova dell’avvenuto pagamento, per la quale non sono sufficienti le annotazioni contenute nel prospetto stesso, ove il lavoratore ne contesti la corrispondenza alla retribuzione effettivamente erogata.
Secondo i Giudici di legittimità, l’onere ricade in capo al lavoratore solo nell’ipotesi in cui questi, dopo aver firmato la busta paga, contesti la corrispondenza tra la retribuzione indicata in detto documento e quella effettivamente erogata.
Non rientrando il caso di specie in quest’ultima fattispecie, la Suprema Corte ha rigettato il ricorso proposto dalla società.
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Con la sentenza n. 32412 del 22 novembre 2023, la Corte di Cassazione si è occupata della
legittimità del licenziamento intimato dal datore di lavoro formale nei confronti di un lavoratore
impiegato nell’ambito di un appalto non genuino.
Il lavoratore agiva in giudizio per ottenere l’accertamento della sussistenza di un rapporto di lavoro
alle dipendenze della società committente, la dichiarazione dell’inefficacia del licenziamento in
quanto intimato dall’appaltatrice e non dall’«effettivo» datore di lavoro e la riammissione in
servizio. La Cassazione, investita della vicenda, ha in primo luogo affermato che non è preclusa al
lavoratore la possibilità di agire in giudizio per l’accertamento della sussistenza di una situazione di
interposizione fittizia e per ottenere il riconoscimento di un rapporto di lavoro alle dipendenze del
committente anche in caso di licenziamento irrogato dall’appaltatrice.
La Suprema Corte, inoltre, ha stabilito che in caso di interposizione fittizia il potere di recesso deve
essere in ogni caso esercitato dal reale datore di lavoro e non da quello fittizio, a pena di
inefficacia del recesso; il datore di lavoro sostanziale, infatti, non può avvalersi del licenziamento
irrogato dall’appaltatore quale atto di gestione del rapporto.
Reintegrato e risarcito il dipendente licenziato per narcotraffico. La condanna per droga è acqua passata e risale a prima dell’assunzione, quando l’azienda ha rilevato il personale dall’impresa uscente dopo essere subentrata nell’appalto bandito dalla pubblica amministrazione. Il fatto materiale sussiste, ma non quello giuridico: la vecchia condanna non ha rilievo disciplinare laddove il datore non dimostra «l’incidenza di fatti così risalenti sulla funzionalità del rapporto»; la sentenza penale che diventa definitiva in corso di rapporto, invece, può far scattare il recesso del datore per giusta causa se viene meno il rapporto fiduciario con l’azienda. Così la Corte di Cassazione, sez. lavoro, ordinanza 8899 del 4/4/2024.
Continua a leggere la versione integrale pubblicata su (Italia Oggi, pag. 14).
La quantità di lavoro non è sinonimo di qualità del lavoro. Pertanto, se si tratta di comparare un lavoratore a part-time con uno a full-time in relazione all’entità di lavoro svolto (quantità), è corretto riproporzionare la retribuzione in base alle ore lavorate (cosicché il lavoratore in part-time riceva, in proporzione alle ore lavorate, la stessa paga di quello occupato a tempo pieno). Ma se si tratta di comparare gli stessi lavoratori, uno a part-time l’altro a full-time, in relazione al servizio prestato (qualità), allora non è corretto, ed è anzi una discriminazione sul lavoro, riproporzionare l’esperienza acquisita (professionalità) in base alle ore lavorate. Lo stabilisce la Corte di Cassazione nella sentenza n. 4313 del 19 febbraio 2024, aggiungendo che penalizzare il part-time è discriminare le donne, che più lo richiedono.
Continua a leggere la versione integrale pubblicata su (Italia Oggi, pag. 14).
Con l’ordinanza del 4 gennaio 2024, il Tribunale di Ravenna ha rimesso alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea il giudizio della legislazione italiana in merito alla computabilità nel periodo di comporto delle assenze dal lavoro causate da patologie invalidanti.
Il quesito posto alla Corte di Giustizia Europea può essere così sintetizzato: se il periodo di comporto di 180 giorni previsto dal CCNL Confcommercio (che trova applicazione senza distinzioni tra soggetti disabili e non) possa considerarsi un ragionevole accomodamento idoneo da escludere la discriminazione indiretta dei lavoratori disabili.
L’ordinanza prende le mosse dalla Direttiva CE n.78/2000, relativa alla parità di trattamento in materia di occupazione e condizioni di lavoro dei lavoratori disabili, recepita in Italia con d.lgs. n.216/2013.
Sulla base di tale Direttiva si è formata, in ambito comunitario e, successivamente, in ambito nazionale, un filone giurisprudenziale che ha ritenuto che l’applicazione indifferenziata del medesimo periodo di comporto ai lavoratori disabili e ai lavoratori non disabili costituisca una discriminazione indiretta, in quanto provoca una disparità di trattamento a danno del disabile che, a causa della fragilità insita nell’handicap, è posto in una situazione di particolare svantaggio rispetto agli altri lavoratori, visto il rischio di maggiore possibilità di accumulo di giorni di assenza e di raggiungere, così, più facilmente i limiti del periodo di comporto.
Secondo tale indirizzo giurisprudenziale, il licenziamento del disabile, che, a causa di tale disabilità, superi il periodo di comporto, deve essere dichiarato nullo, in quanto discriminatorio.
Il giudice rimettente, dopo aver richiamato la giurisprudenza della CGUE da cui ha poi preso le mosse anche la giurisprudenza di merito e di legittimità nazionale, ha sollevato dubbi sulla necessità di stabilire una durata specifica del periodo di comporto per i disabili, ritenendo che la normativa italiana sulla malattia fornisca già una tutela significativa al disabile. Ha anche esposto perplessità riguardo alla fattibilità di strumenti come lo scomputo, ad opera del datore di lavoro, dei periodi di assenza dovuti a disabilità dal periodo di comporto.
Tra le ragioni ostative all’introduzione di una tutela differenziata, il Tribunale di Ravenna ha citato l’impossibilità per il datore di lavoro di distinguere le assenze causate da malattia comune da quelle dovute a patologie invalidanti, in virtù delle normative sulla privacy che non obbligano il disabile a divulgare il proprio stato di salute.
Per le ragioni sopra sinteticamente riassunte, il giudice rimettente ha dunque chiesto alla CGUE di pronunciarsi sulle seguenti questioni:
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