Con la recentissima sentenza n. 2274 del 23 gennaio 2024, la Suprema Corte di Cassazione ha statuito che è legittima l’intimazione da parte del datore di lavoro di un secondo licenziamento in pendenza di un giudizio avente ad oggetto un precedente recesso fondato su motivi diversi, sebbene la seconda sanzione espulsiva sia destinata a non produrre effetti ove il primo licenziamento venga dichiarato legittimo con sentenza passata in giudicato.

Il caso di specie

Un dipendente, in pendenza di un giudizio inerente ad un primo licenziamento, impugnava giudizialmente il secondo licenziamento disciplinare irrogatogli dal datore di lavoro.

Il giudizio afferente tale secondo licenziamento veniva definito nell’ambito della c.d. fase sommaria del Rito Fornero con l’annullamento del licenziamento in quanto solo uno dei fatti addebitati era stato provato.

L’ordinanza della fase sommaria veniva opposta sia dal dipendente sia dal datore di lavoro.

I due giudizi della fase di opposizione non venivano riuniti e si concludevano con due separate sentenze, dichiarative entrambe dell’inefficacia sopravvenuta del secondo licenziamento: ciò in quanto, nelle more di tale giudizio, vi era stato, in primo grado, l’accertamento giudiziale della legittimità del primo licenziamento e, successivamente, la Corte d’Appello, sempre con riferimento al primo licenziamento, aveva dichiarato inammissibile il ricorso promosso dal lavoratore.

Le due sentenze emesse nell’ambito della fase di opposizione afferente al secondo licenziamento venivano appellate sia dal datore di lavoro sia dal lavoratore.

La Corte d’Appello – a seguito dell’intricata vicenda processuale sopra riassunta – dichiarava inefficace il secondo licenziamento e ciò a fronte di una sentenza, seppur non definitiva, che aveva affermato la legittimità del primo.

Avverso tale pronuncia resa dalla Corte d’Appello ricorreva in cassazione il datore di lavoro.

Il ricorso in Cassazione e la decisione assunta dalla Corte

Nelle more del procedimento in cassazione afferente al secondo licenziamento, la Suprema Corte si pronunciava altresì in merito al primo recesso, confermando la legittimità dello stesso.

Con la pronuncia in commento, gli Ermellini hanno quindi rilevato, preliminarmente, la perdita di interesse da parte del datore di lavoro ad insistere per l’annullamento della pronuncia dichiarativa dell’inefficacia del secondo licenziamento, perché tale inefficacia era da ritenersi ora conclamata per il maturare del menzionato giudicato.

Solo al fine di pronunciarsi in merito alle spese processuali, la Suprema Corte accoglieva il ricorso promosso dal datore di lavoro sulla scorta dei seguenti motivi.

In primo luogo, la Corte ha statuito che, in tema di rapporto di lavoro subordinato, il datore di lavoro, qualora abbia già intimato al dipendente il licenziamento, possa legittimamente intimargli un secondo recesso, fondato su una diversa causa o motivo, essendo quest’ultimo del tutto autonomo e distinto rispetto al primo.

Secondo i Giudici di Legittimità, entrambi gli atti di recesso sono in sé astrattamente idonei a raggiungere lo scopo, dovendosi ritenere il secondo licenziamento produttivo di effetti solo nel caso in cui venga riconosciuto invalido o inefficace il precedente con sentenza passata in giudicato.

Da ciò consegue che la Corte d’Appello avrebbe dovuto pronunciarsi sulla legittimità o meno del secondo licenziamento e ciò in quanto il giudizio relativo al primo licenziamento non si era – all’epoca – ancora concluso con una sentenza passata in giudicato.

La Suprema Corte, accogliendo il ricorso promosso dal datore di lavoro, ha conseguentemente condannato il dipendente al pagamento delle spese legali del procedimento.

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Con l’ordinanza n. 35527 del 19 dicembre 2023, la Corte di Cassazione si è espressa sul licenziamento di una lavoratrice madre disposto in conseguenza della cessazione dell’attività di impresa del datore di lavoro a seguito di dichiarazione di fallimento, decretandone la nullità e condannando il datore di lavoro alla reintegrazione della dipendente e al pagamento di un’indennità monetaria.

I fatti di causa

Nel caso di specie, la lavoratrice veniva licenziata dalla Curatela – poco dopo il rientro dal periodo di congedo di maternità obbligatorio e prima che il figlio compisse un anno di età – per l’intervenuta dichiarazione di fallimento della Cooperativa, sua datrice di lavoro.

La lavoratrice impugnava il licenziamento davanti al Tribunale di Arezzo rivendicando la nullità dello stesso in quanto intimato entro l’anno di nascita di suo figlio. Il Tribunale accoglieva la domanda della lavoratrice, dichiarava nullo il licenziamento e condannava la Curatela fallimentare alla reintegrazione della dipendente oltre al pagamento di un’indennità commisurata all’ultima retribuzione.

La Corte d’Appello di Firenze, a seguito del giudizio promosso dalla Curatela, confermava la pronuncia di prime cure.

La sentenza della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione, investita della causa, ha indagato il concetto di “cessazione dell’attività di impresa” previsto dall’ art. 54, co. 3, lett. b), D.Lgs. 151/2001 come una delle ipotesi di deroga al generale divieto di licenziamento delle lavoratrici madri entro l’anno di nascita del figlio.

In particolare, la Corte ha valutato l’ipotesi in cui l’esercizio provvisorio dell’attività d’impresa non sia disposto con la sentenza dichiarativa del fallimento, né successivamente autorizzato dal giudice delegato, in un contesto in cui dopo il fallimento “era stato dimostrato che le attività di liquidazione non erano iniziate e che, invece, erano in corso attività conservative in funzione di trasferimento a terzi (motivo per il quale era in corso una selezione del personale da conservare in servizio)”.

Dalla disamina della normativa fallimentare e di quella contenuta nell’art. 54, emerge, secondo la Corte, come la sentenza dichiarativa del fallimento implichi la cessazione formale dell’attività d’impresa (salvo l’esercizio provvisorio autorizzato), mentre il concetto di cessazione sotteso all’art. 54 abbia una portata diversa.

A parere della Corte, la deroga al divieto di licenziamento dettata dalla “cessazione dell’attività” opera solamente nei casi in cui sia esclusa ogni possibilità che comporti, in qualche modo, la continuazione o la persistenza dell’impresa, a qualsiasi titolo essa avvenga e ciò in ragione della preminente tutela dei diritti della lavoratrice madre rispetto ai diritti patrimoniali, posti a salvaguardia della par condicio creditorum (in sede fallimentare).

Nel richiamare precedenti pronunzie sul tema, la Corte, con la sentenza in commento, precisa che la deroga prevista dall’art. 54 debba essere contenuta entro “limiti precisi e circoscritti” e che “in considerazione del fatto che l’estinzione del rapporto si presenta come evento straordinario o necessitato” la stessa non possaessere interpretata in senso estensivo (Cass. N. 13861/2021). Pertanto, conclude la Corte, la deroga al divieto di licenziamento opera al ricorrere delle seguenti due condizioni: (i) che il datore di lavoro sia un’azienda e (ii) che vi sia cessazione dell’attività, con onere della prova a carico del datore di lavoro stesso.

Nel caso di specie, alla luce del fatto che l’attività della fallita Cooperativa non poteva dirsi cessata, il licenziamento della lavoratrice non è stato ritenuto conforme ai principi di diritto sopra richiamati e, per tale ragione, è stato quindi considerato illegittimo.

Con sentenza n. 39129 del 26 settembre 2023, la Corte di Cassazione III Sez. Penale ha affrontato il tema della responsabilità amministrativa degli enti ai sensi del D.lgs. 231/2001, affermando che “la responsabilità amministrativa dell’ente non può essere esclusa in considerazione dell’esiguità del vantaggio o della scarsa consistenza dell’interesse perseguito”.

I fatti di causa

Una Società veniva condannata in primo grado per violazione, ossia per il delitto di lesioni personali gravi commesso in violazione delle norme antinfortunistiche in danno di un proprio dipendente (ex art. 25 septies del D.lgs. 231/01).

Nello specifico, veniva rilevato che la Società – committente dei lavori e titolare del cantiere – aveva omesso di dotare la porta scorrevole presente all’ingresso del luogo di lavoro di un sistema di sicurezza per impedire la fuoriuscita del cancello dalle guide o comunque di cadere. Tale omissione provocava la caduta a terra del lavoratore per essere stato schiacciato dal cancello.

I giudici di seconde cure confermavano la sentenza della Corte Territoriale con la quale veniva addebitata l’omessa dotazione di misure di sicurezza volte a prevenire il rischio “per colpa consistita in imperizia, negligenza, imprudenza nonché inosservanza delle norme in materia di prevenzione di infortuni sul lavoro”.

La decisione della Corte di Cassazione

Avverso la sentenza della Corte d’Appello, la Società proponeva ricorso per Cassazione, contestando la sussistenza dei requisiti dell’interesse o del vantaggio dell’ente, dal momento la Società, in concreto, non aveva avuto alcun risparmio di spesa né incremento economico. Ciò, in quanto la spesa per riparare il cancello sarebbe consistita in una cifra “irrisoria”.
La Suprema Corte – dichiarando il riscorso inammissibile – ha colto l’occasione per chiarire che i criteri di imputazione oggettiva della responsabilità amministrativa degli enti rappresentati dall’interesse e dal vantaggio (art. 5 D.lgs. 231/2001):

  • sono alternativi e concorrenti tra loro. Il criterio rappresentato dall’interesse è apprezzabile ex ante, cioè al momento della commissione del fatto e secondo un metro di giudizio soggettivo, mentre il vantaggio è valutabile ex post, sulla base degli effetti concretamente derivati dalla realizzazione dell’illecito ed ha una connotazione invece oggettiva;
  • vanno valutati avendo come termine di riferimento la condotta e non l’evento.

Nel caso di specie, l’infortunio era occorso a causa della mancata affissione di segnaletica informativa e dei dovuti interventi di manutenzione che erano stati omessi per non incidere negativamente sui tempi dell’attività produttiva.

A nulla rileva l’esiguità del vantaggio o la scarsa consistenza dell’interesse perseguito, poiché anche la mancata adozione di cautele che possano comportare limitati risparmi di spesa può essere causa di reati colposi in violazione della normativa antinfortunistica.

Ritenendo corretta la valutazione della Corte d’Appello, la Suprema Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile condannando la Società al pagamento delle spese processuali.

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Con l’ordinanza n. 31660 del 14 novembre 2023, la Cassazione ha statuito che, qualora il licenziamento per giustificato motivo oggettivo sia irrogato al fine di un contenimento dei costi, è onere del datore di lavoro indicare le ragioni per le quali la scelta ricada proprio su un determinato lavoratore.

Il caso di specie

Il dipendente impugnava giudizialmente il licenziamento per soppressione del posto di lavoro cui era adibito. La motivazione addotta dal datore di lavoro atteneva alla necessità di ridurre i costi e ciò nell’ambito di una politica programmatica volta al ripianamento del deficit di bilancio.

La Corte d’Appello, nel rigettare il reclamo promosso dal lavoratore avverso la sentenza resa dal giudice di prime cure, statuiva che, “accertato il passivo di bilancio, il licenziamento del lavoratore fosse necessariamente connesso alle necessità di conseguire il risparmio in un determinato settore lavorativo”.

A fronte delle deduzioni del lavoratore concernenti la mancata soppressione di un altro e più costoso posto di lavoro, la Corte Territoriale precisava che trattasi di “scelte datoriali insindacabili”.

Il ricorso in Cassazione e la decisione assunta dalla Corte

La sentenza della Corte d’Appello veniva impugnata dal lavoratore sulla base di plurimi motivi.

La Cassazione – accogliendo il ricorso promosso dal dipendente – ha statuito che, nell’ambito di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, la ragione organizzativa e/o produttiva collegata ad una politica di riduzione dei costi deve essere valutata nella sua concreta esistenza ed entità.

Tale valutazione non può prescindere dall’accertamento del necessario collegamento causale tra la ragione oggettiva addotta e la soppressione del posto di lavoro.

Ciò in quanto, ove sia stata ipotizzata una generale necessità di procedere ad una politica di contenimento dei costi, diviene necessario approfondire (ed è onere del datore di lavoro fornire la relativa prova) le ragioni per le quali la scelta cada su un determinato lavoratore.

Tale verifica – ad avviso degli Ermellini – non è da qualificarsi quale indebita interferenza nella discrezionalità delle scelte datoriali, e ciò in quanto l’insussistenza della ragione economica addotta incide sulla stessa legittimità del recesso “non per un sindacato su di un presupposto in astratto estraneo alla fattispecie del giustificato motivo oggettivo, bensì per una valutazione in concreto sulla mancanza di veridicità o sulla pretestuosità della ragione addotta dall’imprenditore“.

Non rinvenendo tale verifica nell’impugnata pronuncia di merito, la Suprema Corte ha pertanto accolto il ricorso proposto dal dipendente, cassando con rinvio la pronuncia resa dalla Corte d’Appello.

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Con l’ordinanza n. 29101 del 19 ottobre 2023, la Corte di Cassazione si è pronunciata sulla domanda di risarcimento del danno in un caso di straining. Il dipendente agiva in giudizio perché la sua superiore aveva messo in atto nei suoi confronti una modalità di controllo “stressante” che aveva generato un’animata discussione durante la quale il dipendente subiva un attacco ischemico. La Corte d’Appello, pur avendo accertato tale condotta, ne aveva negato l’illiceità respingendo la richiesta di risarcimento del danno avanzata dal lavoratore, sulla base del fatto che non si trattasse di mobbing, in quanto episodio isolato, e non condotta sistematica con una chiara finalità vessatoria e protratta nel tempo. La Corte di Cassazione ha ribadito che, al di là della qualificazione come mobbing o straining, ciò che rileva è che il fatto commesso, anche isolatamente, sia un fatto illecito ex articolo 2087 c.c. da cui derivi la violazione di interessi protetti del lavoratore al più elevato livello dell’ordinamento. La Cassazione ha inoltre chiarito che lo straining rappresenta una forma attenuata di mobbing, priva della continuità delle vessazioni, ma sempre riconducibile all’articolo 2087 c.c., e che, una volta accertata, comporta l’accoglimento della domanda di risarcimento del danno.