In occasione del nostro Team Meeting di questa settimana, tra i vari argomenti, abbiamo approfondito il tema dei controlli datoriali effettuati tramite agenzia investigativa, analizzando la sentenza n. 28378 dell’11 ottobre 2023 della Corte di Cassazione in cui è stato dichiarato nullo il licenziamento basato su prove raccolte da un investigatore privato che non era stato indicato nominativamente nell’atto di incarico.
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Con l’ordinanza n. 29337 del 23 ottobre 2023, la Corte di Cassazione ha statuito che il recesso per motivo oggettivo in caso di rifiuto del part time (o viceversa del full time) non è di per sé illegittimo, ma comporta una rimodulazione del giustificato motivo oggettivo e dell’onere della prova posto a carico della parte datoriale.
La vicenda tra origine dal licenziamento per soppressione della posizione intimato ad una dipendente che aveva rifiutato la proposta della società di trasformare il proprio rapporto di lavoro da part time a full time.
Impugnato il recesso, considerato privo di giustificato motivo oggettivo e ritorsivo, il Tribunale respingeva la domanda della lavoratrice ritenendo provate le ragioni della società poste a fondamento del licenziamento.
I giudici di seconde cure, in riforma della pronuncia di primo grado, accoglievano il ricorso in appello promosso dalla dipendente, rilevando, in sintesi, che – premesso che ai sensi del Decreto Legislativo n. 81 del 2015, articolo 8, comma 1 “il rifiuto del lavoratore di trasformare il proprio rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto a tempo parziale, o viceversa, non costituisce giustificato motivo di licenziamento” – era da ritenersi pretestuosa la prospettazione di una riorganizzazione aziendale attraverso l’assunzione full time di una nuova figura contabile per fronteggiare un incremento dell’attività lavorativa e che, in ogni caso, non era stata dimostrata in giudizio l’impossibilità per la società di ripartire tra le due contabili un pacchetto complessivo di clienti o la difficoltà a reperire, in tempi brevi, una risorsa part time ne’ era stata provata l’effettiva ineluttabilità del licenziamento della lavoratrice come conseguenza necessaria della addotta riorganizzazione.
La Corte d’Appello statuiva altresì che il licenziamento, oltre che illegittimo, fosse anche ritorsivo, in quanto direttamente collegato al rifiuto opposto dalla dipendente alla trasformazione del rapporto da part time a full time.
Conseguentemente, in sede di gravame veniva dichiarata la nullità del recesso, con condanna della società alla reintegrazione in servizio della lavoratrice e al pagamento di una indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR dal licenziamento all’effettiva reintegrazione, nonché al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali.
Avverso tale sentenza, la società proponeva ricorso in cassazione.
La Suprema Corte – nel riformare la pronuncia di merito – ha precisato che, nella fattispecie per cui è causa, ai fini del giustificato motivo oggettivo, occorre che sussistano o siano dimostrate dal datore di lavoro:
Il rifiuto della trasformazione del rapporto di lavoro part time, come articolato, diventa, pertanto, come precisato dalla Corte, “una componente del più ampio onere della prova del datore che comprende le ragioni economiche da cui deriva la impossibilità di continuare ad utilizzare la prestazione a tempo parziale e l’offerta del full time rifiutata”.
Sulla scolta di tali principi la Suprema Corte ha, dunque, precisato che non solo è necessaria la prova della effettività delle ragioni addotte per il cambiamento dell’orario, ma anche quella della impossibilità dell’utilizzo della prestazione con modalità orarie differenti, quale componente/elemento costitutivo del giustificato motivo oggettivo, ferma restando l’insindacabilità della scelta imprenditoriale nei suoi profili di congruità ed opportunità, in ossequio al disposto dell’articolo 41 Cost..
La Suprema Corte ha altresì statuito che, con riferimento al licenziamento ritorsivo, affinché si possa affermare la nullità del licenziamento, occorre che l’intento ritorsivo datoriale abbia avuto efficacia determinante esclusiva, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso, con onere probatorio che ricade sul lavoratore.
Non essendosi la corte territoriale uniformata a tali principi, gli ermellini hanno accolto il ricorso promosso dalla società, rinviando la causa alla corte territoriale in diversa composizione.
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Come noto, in sede di assunzione, datore di lavoro e lavoratore possono pattuire un “periodo di prova”, con lo scopo di consentire ad entrambi di valutare la “convenienza” del rapporto di lavoro.
Durante o al termine del periodo di prova, entrambe le parti sono libere di recedere dal contratto di lavoro senza dover fornire alcuna motivazione e senza obbligo di dare il preavviso o di pagare la relativa indennità sostitutiva.
La legittimità del recesso “ad nutum” presuppone, tuttavia, che il patto di prova sia stato validamente costituito.
A tal fine, la clausola che prevede il periodo di prova deve essere, per legge, formulata in forma scritta e, secondo costante e maggioritaria giurisprudenza, contenere l’indicazione puntuale delle mansioni affidate al lavoratore così da consentire a quest’ultimo di avere ben chiare le attività su cui la prova sarà effettivamente svolta.
In alternativa, il datore di lavoro può fare riferimento al sistema classificatorio della contrattazione collettiva indicando all’interno della clausola relativa al periodo di prova, l’indicazione del profilo professionale attribuito al lavoratore secondo le declaratorie del CCNL applicato (C. Cass., Sez. Lav., 4 agosto 2014, n, 17591; C. Cass., Sez. Lav., 18 luglio 2013, n, 17587).
Quali sono le conseguenze per il datore di lavoro che receda ad nutum durante il periodo di prova previsto tramite una clausola priva dei requisiti di sostanza sopra richiamati?
Al riguardo, con sentenza n. 20239 del 14 luglio scorso, la Corte di Cassazione, sezione lavoro, ha statuito che: “la nullità̀ della clausola che contiene il patto di prova, in quanto parziale, non si estende all’intero contratto ma determina la automatica conversione dell’assunzione in definitiva sin dall’inizio”.
Pertanto, in merito alle conseguenze connesse al licenziamento “ad nutum” intimato dal datore di lavoro in presenza di un patto di prova nullo, la Corte ha chiarito che «la trasformazione dell’assunzione in definitiva comporta il venir meno del regime di libera recedibilità̀ sancito dall’art. 1 l. n. 604 del 1966; in presenza di un patto di prova invalido, la cessazione unilaterale del rapporto di lavoro per mancato superamento della prova è inidonea a costituire giusta causa o giustificato motivo di licenziamento e non si sottrae alla relativa disciplina limitativa dettata dalla legge n. 604 del 1966; il recesso del datore di lavoro equivale, quindi, ad un ordinario licenziamento soggetto alla verifica giudiziale della sussistenza o meno della giusta causa o del giustificato motivo”.
Nel caso sottoposto al vaglio dei giudici di legittimità, la lavoratrice rivendicava la nullità del licenziamento chiedendo l’applicazione della tutela reintegratoria prevista dall’art. 3, comma 2, d.lgs. n. 23/2015.
La Corte, disattendendo la richiesta della lavoratrice, ha invece ritenuto che «il recesso ad nutum in oggetto, intimato in assenza di valido patto di prova, non riconducibile ad alcuna delle specifiche ipotesi di cui al comma 2 dell’art. 3 d. lgs n. 23 del 2015 nelle quali è prevista la reintegrazione, resta assoggettato alla regola generale della tutela indennitaria».
La Corte di Cassazione, con la recente ordinanza del 5 luglio 2023 n. 19023, si è pronunciata in tema di competenza per territorio ex art. 413 c.p.c., negando che l’abitazione del lavoratore, dalla quale questi eseguiva la sua attività lavorativa in “Remote working”, potesse essere qualificata come dipendenza aziendale, in difetto di alcun collegamento oggettivo o soggettivo del luogo di effettuazione della prestazione con l’organizzazione aziendale.
La vicenda tra origine dal decreto ingiuntivo emesso dal Tribunale di Roma a favore di un lavoratore intermittente, con il quale veniva ingiunto al datore di lavoro di corrispondere al lavoratore le competenze derivanti dalla nullità del contratto di lavoro intermittente e per la prosecuzione dell’attività oltre la scadenza del termine, con conseguente trasformazione del contratto di lavoro a tempo indeterminato.
La società proponeva opposizione al decreto, chiedendo preliminarmente che fosse dichiarata l’incompetenza territoriale del Tribunale di Roma a favore, alternativamente, del Tribunale di Genova, se operativa ed effettiva dell’attività svolta dal lavoratore, ovvero il Tribunale di Udine, luogo in cui ha sede legale la società.
Nel giudizio così instaurato, il Tribunale di Roma dichiarava la propria incompetenza per territorio, ritenendo competenti, alternativamente, il Tribunale di Genova o di Udine, nonché il Tribunale di Civitavecchia, essendo il lavoratore residente a Civitavecchia ed eseguendo le sue prestazioni lavorative in remote working dalla sua abitazione.
Avverso tale sentenza, la società proponeva ricorso per regolamento di competenza affidato ad un unico motivo, con il quale eccepiva l’errata interpretazione del dettato normativo e del consolidato orientamento giurisprudenziale in ordine alla individuazione da parte del Tribunale di Roma della competenza del Tribunale di Civitavecchia.
La società rilevava, infatti, che non vi fosse alcun elemento per radicare la competenza nel foro di Civitavecchia, non essendoci, presso l’abitazione del lavoratore, alcun nucleo di beni organizzati per l’esercizio dell’impresa, dovendosi così escludersi la competenza territorio nel luogo dello remote working.
L’ordinanza emessa della Cassazione muove dall’analisi dell’art. 413 c.p.c., il quale sancisce che il giudice del lavoro è competente per territorio alternativamente nel luogo in cui è sorto il rapporto, in quello dove si trova l’azienda ovvero, infine, in quello ove si trova la dipendenza aziendale alla quale il lavoratore è addetto.
Secondo quanto statuito dalla Suprema Corte nell’ordinanza in commento, con specifico riferimento alla “dipendenza aziendale”, occorre far riferimento al luogo in cui il datore ha dislocato un nucleo, seppur modesto, di beni organizzati per l’esercizio dell’impresa (Cass. n. 14449/2019; Cass. n. 4767/2017).
Qualora, invece, come nella fattispecie in esame, l’attività di remote working si atteggi, secondo quanto dichiarato dallo stesso lavoratore, unicamente quale luogo di svolgimento della prestazione senza l’allegazione di alcun altro elemento che caratterizzi in qualche modo l’abitazione quale dipendenza aziendale, allora tale criterio non può essere preso in considerazione ai fini della individuazione della competenza territoriale, residuando unicamente i criteri del luogo di conclusione del contratto oppure della sede ove il lavoratore era addetto.
Conseguentemente, la Corte di Cassazione ha accolto l’istanza di regolamento di competenza proposta dalla Società, dichiarando la competenza per territorio alternativa esclusivamente dei fori di Udine e di Genova e non anche di quello di Civitavecchia.
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Con la recente pronuncia n. 17643 del 20 giugno 2023, la Corte di Cassazione ha affermato il principio secondo cui la prescrizione del diritto del lavoratore a ricevere l’indennità sostitutiva delle ferie e dei riposi settimanali non goduti decorre dalla cessazione del rapporto di lavoro, ad eccezione del caso in cui il datore di lavoro dimostri di aver messo il lavoratore nelle condizioni di godere delle ferie maturate.
Nello specifico, il datore di lavoro deve offrire la prova di avere invitato il lavoratore a fruire delle ferie in tempo utile a garantire che le stesse siano ancora idonee ad apportare all’interessato il riposo e lo svago cui sono finalizzate. Inoltre, il datore di lavoro deve aver avvisato il lavoratore del fatto che, in caso di mancato godimento delle ferie, queste andranno perse al termine del periodo di riferimento.
Nel caso al vaglio della Corte di Cassazione, una lavoratrice, in seguito alla cessazione del rapporto di lavoro per dimissioni, ha adito il Tribunale di Milano chiedendo, tra le altre domande, la condanna del datore di lavoro a corrisponderle una somma a titolo di indennità sostitutiva delle ferie non godute.
Il Tribunale ha parzialmente accolto la richiesta della lavoratrice, mentre la Corte d’Appello di Milano ha accolto l’appello incidentale della lavoratrice, riconoscendole il diritto a percepire l’indennità sostitutiva delle ferie per un totale di 248 giorni (invece che di 124 giorni come disposto dal Tribunale in primo grado).
Il datore di lavoro ha proposto ricorso per Cassazione avverso la sentenza della Corte d’Appello di Milano, insistendo, tra l’altro, sulla prescrizione del diritto della lavoratrice, stante la prescrizione decennale dell’indennità sostitutiva delle ferie che deve decorrere in costanza di rapporto di lavoro.
Al riguardo, la Corte di Cassazione, confermando le pronunce dei giudici di merito, ha affermato che la prescrizione del diritto del lavoratore all’indennità sostitutiva delle ferie e dei riposi settimanali non goduti “decorre dalla cessazione del rapporto di lavoro, salvo che il datore di lavoro non dimostri che il diritto alle ferie ed ai riposi settimanali è stato perso dal medesimo lavoratore perché egli non ne ha goduto nonostante l’invito ad usufruirne; siffatto invito deve essere formulato in modo accurato ed in tempo utile a garantire che le ferie ed i riposi siano ancora idonei ad apportare all’interessato il riposo ed il relax cui sono finalizzati, e deve contenere l’avviso che, in ipotesi di mancato godimento, tali ferie e riposi andranno persi al termine del periodo di riferimento o di un periodo di riporto autorizzato”.
In definitiva, dunque, è meglio non rinviare le ferie quando è il datore di lavoro a invitarne la fruizione per evitare il rischio di perderne definitamente il diritto, compreso quello relativo alla monetizzazione prevista alla fine del rapporto lavorativo.
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